martedì 25 maggio 2010

Mimmo Jodice (I), Retrospettiva, Maison Européenne de la photographie, Parigi



" Napoli é la fotografia ; la fotogenia di Napoli é immediata e diretta,
é un caleidoscopio d’immagini a presa rapida e diretta che attrae perfino sui soggetti più disincantati e meno atti a ispirare”. Ai percorsi di superficie fatti di strade e chiese, di chiostri e cortili abbandonati corrisponde il ventre antico della città, labirinto di catacombe e scalinate sotterranee vicoli senza fine, pullulanti di vita, di un’attività frenetica segreta e vitale denudata d’ogni pregiudizio.



“Siamo nel battito di questa città antica, tuttavia così immobile dove la realtà caotica e invadente è cristallizzata al cuore del passato come in un’archeologia del futuro. ”

Sulla fotografia, la città, lo spazio

Città invisibile, 
lo spazio é  preso nella distanza, nell’astrazione, nell’estraneità più totale dall’immediato quotidiano e insieme é profondamente, sensibilmente investito, come un ambiente che contiene il proprio malessere , lo assorbe, lo assimila e se ne lascia impregnare.
Se ne inietta il veleno tacitamente senza sapere esplicitarne le cause,
escludendo ogni figurazione diretta, la scelta d’esseri umani al centro della fotografia. L’immagine rispetto al periodo precedente, più direttamente documentario, si svuota d’ogni presenza umana, divenendo sempre più intima,  tendente all’astrazione e insieme investita d’una dimensione interiore,

paesaggio poetico parlante una lingua propria, atemporale.



“Ci si muove liberamente seguendo sensazioni, angosce, un’immagine mentale più o meno presente, chiara o confusa di fronte agli occhi e quando la scena coincide con questa allora è il momento della fotografia”. 

Le immagini cambiano ma le suggestioni restano, non smettono di ritornare, tormentarci, di ripresentarsi mascherate sotto diverse forme o sembianze come parte del nostro modo di vedere il mondo,
della nostra idealità tanto che una fotografia puo' scaturire da qualsiasi pretesto o occasione, trovarsi dappertutto, in ogni luogo. 

Esiste un’idea o una suggestione vaga della mente che si sviluppa al momento dello scatto e si completa in laboratorio: spazio di creazione, di elaborazione e rielaborazione costante fino a quando non si decide di lasciare la “camera oscura” in quella che consideriamo l’immagine finita.

Le  immagini più belle sono, forse, quelle che non esistono, che non vedremo mai,o non verranno mai fatte, 
quelle che abbiamo immaginato e resteranno fluttuanti nella nostra mente:
una fuga nel tempo e nello spazio,
il mare visto in un’apertura improvvisa dell’infinito.



“La fotografia è un linguaggio come la parola o la scrittura: queste immagini non raccontano la realtà che mi circonda, potrebbero essere state fatte cinquant’anni fa oppure tra cinquant’anni”. Esprimono uno stato fisico, mentale o emozionale più o meno cosciente, incarnano un’atmosfera, metaforizzano una visione poetica,
non descrivono un evento.
Rinviano a suggestioni già là, presenti nella mente prima d’averle viste o inquadrate nella realtà esteriore seppure latenti o ancora a uno stadio virtuale. Nascono per una necessità espressiva e quello che troviamo nella realtà risponde, in qualche modo, al nostro bisogno interiore.

Guardare lontano o a una distanza ravvicinata, uscire dal presente,
tirarsi fuori dalle proprie abitudini visive, risponde al mio modo di percepire la luce,

le forme fisiche nello spazio.




















Mediterraneo



L'obiettivo si concentra sul Mediterraneo: Grecia, Africa del nord, Italia meridionale. Frammenti dell'eredità classica, rovine di ville romane ritrovate tra le sabbie del deserto; edifici in pietra, statue, affreschi o mosaici.

Volto sfregiato d'una statua greca.
Venere, volto di linee epurate dalle proporzioni ideali, dai tratti solenni d’un modello di bellezza classica, sfregiato in primo piano,
attraversato da una linea d’ombra, fenditura sottile sul marmo che ne incide tutta la lunghezza del profilo fino a toccare le labbra, la linea del collo e del mento.
Proiezione, doppio o autoritratto de-figurato dell’artista
contemplando la propria immagine rovesciata, l’altro lato dello stesso volto apparentemente epurato, intoccabile, dalla pelle liscia, levigata, assolutamente intatta.

In un'altra statua una parte del volto è letteralmente sottratta, divorata come se il grigiore del fondo ne avesse letteralmente assorbito i tratti ,
la figura é spazio vuoto, zona d’assenza, senza più contorno o definizione fissa.
Resta lo sguardo, vivente e animato, intagliato sulla pietra fissando un punto lontano, non identificabile alla nostra vista.

Allo stesso modo compaiono divinità in quattro o cinque frammenti di vetro spezzati e ricomposti.
La struttura portante d’un tempio é divorato da una zona d’ombra: macchie informi, impediscono o arrestano la figurazione; macchie nere si impongono al centro, non tanto come antri o passaggi verso l’altrove quanto come arresti, imposizioni, intromissioni improvvise di presenza.

Colonne di tempio greco sono viste in dettaglio, in primo piano;
Le linee di intarsio semi-cancellate sono colte nell’atto di ridivenire informi, senza definizione come per un colpo di spugna, una folata di vento,
il passaggio d’un lasso d'ore indeterminato ricoprendo le cose d’uno spesso strato di polvere opaca.
Una fitta filigrana di materia corrosa, divorata da tanti piccoli buchi compone la superficie rugosa della figura simile a un formicaio, una roccia bucherellata di piccoli fori sostituendosi agli organi vitali del cuore, del ventre o dei polmoni.
























Processo di corrosione della materia vista nell’atto del suo "s-farsi".
La pietra si sgretola tra le mani soggetta alla violenza inavvicinabile del tempo.

Pietra rugosa di templi o rovine,
é vista in prospettiva correndo verso un proprio centro di fuga
come per un’energia o una forza centripeta che riporta la forma finita alla voragine aperta dello stadio precedente, poi ancora più indietro, allo stato grezzo del non-finito, alla roccia primitiva,
ancora più indietro al magma primigenio della materia,
alle forze primarie, agli impulsi che annullano e rigenerano senza sosta il processo vitale.

Processo di cancellazione progressiva dei volti persi a loro stessi;
le statue si sgretolano come argilla friabile tra le mani, perdendo la propria integrità.

Amnesia: perdita improvvisa di memoria, bianchi inspiegati di date, nomi, luoghi o parti d' avvenimenti; lassi di tempo di cui non si ricorda più nulla di preciso, restando come spazi vuoti, fluttuanti nella mente.
Anamnesi: processo di ricostituzione progressiva dei dati ricomponendo le fasi successive d’una decorrenza clinica a scopo diagnostico.

Statua sfuocata, semi-cancellata nei tratti del volto dall'effetto flou della luce rapita da un grido silenzioso.
Attimo di terrore , angoscia improvvisa che l’afferra.
La pietra é metamorfizzata in tratti viventi, bocca e parti del viso sono semi-cancellate.
Grido di terrore sul volto senza parole, senza organi che possano emettere un suono a proiettarlo.

Demetra II, Ercolano: schegge di volti, quello maschile sfregiato all’angolo del viso, senza più bocca, come se il primo strato di superficie fosse stato graffiato, asportato e rimosso.
Un' altra scheggia di volto femminile appare accanto, di cui restano visibili solo le labbra.

Il viso si sottrae nell'impossibilità d'offrirsi se non come superficie de-figurata,
pietra rugosa, ruvida, scabra al tatto, passaggio infranto tra i due seppure in continuità.
Contiguità inavvicinabile, strappo e ricomposizione costante per frammenti dispersi,
Metafora potente della ricerca d’una idealità amorosa di fronte al proprio limite.
La pietra é resa umana, vivente eppure prigioniera della materia morta;
labbra e sguardo sono animati come fossero investiti d'un soffio vitale, stranamente umani, espressivi contro il marmo gelido a contenerli, a costituirli.

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