giovedì 30 luglio 2015

Divagazioni estive dal blog di arte e danza : a proposito di “Domande tra porto e mare” di Alessandra Maltoni (Ed. Mef )







E’ uno sguardo lieve, riempito di ironia e leggerezza, intelligente e pervaso di poeticità quello che si impone e arriva attraverso la scrittura di Alessandra Maltoni nel suo testo breve, un racconto ambientato nelle zone limitrofe di  Ravenna in prossimità del lido ravennate e  della adiacente marina che si esplora nel corso d’una giornata in bicicletta, 


tra il “porto e il mare” come  titola la storia; lì lo sguardo d’un bambino di otto anni  entra in dialogo quello d’ una donna adulta, la zia che l’accompagna, vista senza età e preda del suo sapere mentre tutta una geografia di luoghi e punti dalla pineta al porto si disegna intorno a loro nell’attraversamento.

Dietro l’apparente semplicità della storia e dello stile dialogato in domande e risposte continue tra i due personaggi appare la scelta del punto di vista dell’infanzia, lo sguardo  del bambino che non smette di chiedere, la curiosità di chi vuole tutto sapere, tutto conoscere, tutto scoprire con la voracità del nuovo arrivato sulla terra, in esplorazione, in ascolto, all’erta di tutte le suggestioni, gli stimoli, le sensazioni visive, tattili o sonore del  territorio, quasi dovesse assorbire su di sé tutti i segreti del mondo. Tale lente rovesciata dell’infanzia guarda all’universo con stupore e curiosità, con la voracità di scoprire il perché e il come delle cose, di che cos’è un campeggio, un molo, un porto, e perché il mare è salato, le navi galleggiano e come fanno gli alberi a bere acqua e ad assorbire la linfa dalla terra. La citazione in inizio libro non può non richiamarci alla memoria  il dialogo tra il narratore e il bambino de”Il Piccolo Principe” di Saint-Exupéry, dove un punto di vista similare osserva e giudica l’ottusità del mondo adulto opponendo ad esso la lente dell’immaginazione poetica , lo sguardo del tutto possibile dell’infanzia contro l’imbuto stretto e riducente dell’univoca spiegazione razionale, della logica di cifre e numeri con cui l’adulto si relaziona. 

La stessa dimensione di favola di S. Exupéry permane in questo raccolto tuttavia realistico senza toccare il risvolto malinconico, la tristezza e la solitudine velata di poesia, la metafora esistenziale del  Piccolo Principe.  Qui l’atmosfera è lieve, leggera come la gita a Marina dei due personaggi, e la pedalata in bicicletta attraverso la pineta piacevole per quanto sotto un sole che diviene sempre più cocente e alto in cielo mentre si ascolta il “tur tur” delle tortore e il concerto sonoro dell’ambiente circostante. La complicità tra la zia e il bambino si rivela sempre più osmotica nel corso della narrazione, scherzosa e a tratti velata di ironia. La narratrice adotta la metafora del trasferimento della linfa per osmosi dalle radici alla pianta e alle estremità delle foglie: spiega al bambino pazientemente tutto, delucida parole sconosciute a lui e risponde alle sue domande travasando liquidi come attraverso vasi comunicanti dal meno pieno al più pieno e viceversa. Se lei lo chiama scherzosamente con diversi appellativi Car, Citrullo, “sottiletta” per il suo corpo esile, lui riafferma la loro complicità contro la delusione del vedere partire la nave senza di loro, “i due sempre in ritardo che perdono le barche” mancano il piano stabilito e devono pensare a un piano B per riempire la giornata.

Appare in controluce attraverso la scrittura del racconto l’intento della narratrice di trasmettere,  divulgare o educare il lettore al mondo in qualche modo entrando nel gioco dell’infanzia, imparando a parlare con il suo stesso linguaggio per rispondere alla curiosità del bambino senza sopprimere la sua immaginazione ma, al contrario, inventando la leggenda dell’acqua salata e insieme una spiegazione scientifica alla salinità della medesima.

 L’itinerario tra il porto e il mare nel percorso di Rosa e Carlo a Marina permette, anche a noi lettori di tracciare la topografia di un territorio come quello del Lido Ravennate attraverso le sue tracce storiche, di reperire una serie di punti, di luoghi che divengono strategiche iscrizioni dal passato al presente o del tessuto sociale attuale: la pineta che precede e avvolge la marina con la sua rigogliosa vegetazione e  orchestrazione di suoni, lo storico campeggio Piomboni all’ingresso del lido, il molo e il vicino porto-canale con le imbarcazioni ormeggiate che collega l’abitato al mare, poi il mitico locale “Baretto" all’ombra del faro destinato a demolizione, infine il nuovo porto turistico proiezione di scambio e comunicazione verso l’alterità, l’innovazione, il futuro.

Magia  e scienza evocate insieme dalla figura del leggendario Archimede convivono nel racconto della Maltoni,  tenendo insieme la lente immaginativa, lo sguardo dell’infanzia, lo stupore e la meraviglia nei confronti del mondo che solo un bambino può avere con la capacità divulgativa dell’adulto a condizione di saper entrare nella sua misura, in un dialogo serrato tra i due, in un raccolto piacevole e lieve intriso di poeticità che infine rende omaggio implicitamente a quel Piccolo Principe malinconico e solitario in esplorazione del pianeta terra del mitico autore-aviatore francese.







domenica 19 luglio 2015

Sam Hewitt, "To infinity and beyond"( visto a Brighton, Kemptown, Luglio 2015)









L’ombra dell’io cosciente è là presente, ma dietro quella giacciono i nostri segreti motivi inconsci che portiamo con noi dall’infanzia. Restano lì non notati fino a quando non sono scossi, minacciati, fino a quando  una crisi non sopraggiunge nella vita di un individuo”.

La pittura: la notazione personale d’una serie di scelte consce e inconsce appese alle pareti, volte verso noi tutti per permetterci di vedere”.




 Una luminosità straordinaria riporta in vita le figure lasciate in ombra, non tracciate,  colte in cammino attraverso percorsi usuali lungo le strade affollate della cittadina inglese; indolenti sono viste soffermarsi a guardare il mare, a fissare l’orizzonte lontano oltre il profilo della marina. La luce nella pittura di Hewitt giunge spesso trasversalmente da angoli, scorci o punti di vista inusuali scelti dal suo sguardo, cade sui volti, sui corpi, si sofferma sulle figure diluendole in profili luminosi che dileguano i tratti cancellandoli uno a uno per lasciarci semplicemente lo spazio o meglio l’alone indistinto di luce che  contorna la figura. Spesso i corpi sono colti di schiena, o visti mentre camminano voltando le spalle a noi spettatori come profili luminosi immersi in effetti solarizzati del paesaggio e, pur posizionandosi nello spazio della città, delle strade, in qualche modo in un mondo in sé stesso riconoscibile, rinviano in primo luogo per la loro qualità pittorica a un atto di rispecchiamento, alla proiezione d'un esterno filtrata dal riflesso d’un sé poetico altro, dallo sguardo deformante della propria interna visione.

“Blindness” nella pittura di Hewitt figura momenti di non-visione, di distorsione profonda tra una realtà oggettiva, apparente o data e la consapevolezza di un io interiore, la presenza di un “inner self”  anche nella cecità di quello sguardo gettato sul mondo; la propria interna oscurità,  l’annebbiamento come l’ incapacità di distinguere le forme dalle ombre, le linee tracciate dalle loro apparenti diluizioni in pittura,  poi l’irradiazione d’una luce che dilaga e confonde i confini di quella esterna realtà.

Dipingevo sopra un altro dipinto che non amavo e la collisione tra i due ha due ha creato incidenti interessanti. Vedo il punto in cui una figura incontra la propria ombra dal precedente quadro attraverso il passo d’un uomo che sta camminando fuori dalla tela.E’ il mio inconscio al lavoro: per me l’arte e la vita hanno tutte e due e entrambe a che fare in modo assoluto con l’integrare quella parte di oscurità e camminare con le proprie ombre."



Specchio rilucente di colori ed oli riflessi dei medesimi, porpora, e rosso rubino,  sui quali lo sguardo scivola come su quella realtà senza potersi arrestare portandoci verso un punto di fuga lontano, intravisto dal nostro sé subcosciente. Defocalizzazioni, sovrapposizioni di strati di pittura a olio, individui visti di schiena o dal volto semi-cancellato che la luce rende aloni luminescenti. Appaiono perduti, sembra, in mezzo al cammino, oppure sono visti scivolare nelle trappole del proprio spazio interiore, intrappolati su questo specchio rilucente di superficie rosso olio_  a indugiare su una realtà apparente che non riescono a fare propria, fino in fondo a integrare come la figura nel quadro.  
Altre volte, è semplicemente l’irradiazione dello stupore, della meraviglia  nel vedersi camminare su un pavimento rubino traslucido e riflettente come la superficie dei quadri per andare all’ incontro della propria estraneità .


(samhewittpaintings.com)




venerdì 3 luglio 2015

A proposito di Jean Munoz, " Double Bind & Around" (Hangar Bicocca, MIlano)


















Jean Munoz:
“ Lo spazio è là, dato. Poi viene il mio linguaggio, la mia esperienza che è altra cosa. Questi sono i punti di partenza. Non penso che qualcuno possa veramente dar forma a un lavoro a prescindere. Bisogna venire, guardare, disperarsi e sorridere”.

All’Hangar Bicocca lo spazio creato da Munoz come nel suo precedente allestimento alla Tate non è elemento architettonico dato a priori ma veramente l’oggetto d’un esperienza percettiva inedita dove lo spettatore è chiamato in primo luogo a rendersi partecipe insieme all’artista: guardare l’oggetto è anche un vedere sé stessi nel vuoto d’un piano, d’un corridoio o d’un ascensore tra i tre livelli di scorrimento dal sottosuolo al sopraelevato. Se si tratta, nelle parole di Munoz, di "avere un’immagine per cominciare e costruire a partire da quella" una scultura o un’installazione, fondamentale resta per l'artista rispetto al suo lavoro anche e soprattutto vedere gli spettatori muoversi nello spazio, circolare e essere soggetti a meccanismi di percezione destabilizzante perché non resti solo, per loro, un' osservazione ma la reale esperienza di un attraversamento: “attraversare la città” piuttosto che di “entrare in un museo” camminando su pavimenti ottici e geometrici o attraverso installazioni che investono la verticalità estrema dell’Hangar quanto il suo volersi vuoto, anonimo, apparentemente ostile o estraneo allo spettatore per lasciarlo alla propria esperienza percettiva estraniante .






“La mia prima idea o immagine se si vuole era di costruire due ponti successivi, due ponti tendenti all’orizzonte che scomparivano nella distanza. Questa è stata la prima idea: stare su un ponte e guardare a qualcosa, un ponte dal nulla al nulla. La seconda idea era di sospendere un numero indefinito di persone nello spazio”.






“Waste Land”





Il pavimento si compone di pattern geometrici colorati, di elementi modulari del nero, del giallo e del grigio; scorre, scivola sotto i nostri piedi, si protrae, tende oltre i nostri occhi a un infinito ottico e modulare, a una griglia visiva che appare anche come una gabbia geometrica e illusoria. Ci fa perdere la nozione spazio-temporale dei limiti, scorre trascendendo lo spazio fisico sotto i nostri piedi come un piano aperto, una distesa galattica, come una serie di diagonali in combinazione infinita di gialli e di neri intermittenti ai grigi in diluizione. E’ terra “desolata” , dalla poesia di Eliot cui si ispira, perché immersa in questa sorta di estraneità e vuoto percettivo; spazio aperto dove lo sguardo scivola senza potersi arrestare su alcun segno di presenza, sullo sfondo di strutture oscuranti in tubi e metallo. Il pupazzo d’un piccolo ventriloquo è là testimone a lato, dall’altro lato un suo simile, seduto con i piedi che penzolano da una mensola di metallo sospeso nel vuoto. Lo sguardo scivola, corre all’infinito come questa luce verso un punto di fuga lontano, nell'oltre, poi tende a parcellizzarsi in una molteplicità di punti di vista secondo le diagonali scelte. I due testimoni, muti e sprovvisti come questi pupazzi di ventriloquo d’un reale interlocutore, restano n attesa di parole o che le parole di qualcun altro giungano a loro; in metallica sospensione potenzialmente investiti della capacità di raccontare , di farsi tramite e incarnare un’altra lingua, la voce d'altri corpi, altre parole.

“Hanging Figures”



Guardare, essere guardati, guardare sé stessi, la verticalità mette in scena questo gioco dello sguardo.
Fare i conti con la verticalità dello spazio espositivo diventa una scelta simbolica oltre che formale, implica una distorsione profonda dello sguardo costretto verso l’alto, fatto sollevare dal suolo al soffitto oppure della figura intera appesa, spesso comparendo come attaccata dall’alto a un filo metallico e lasciata penzolare. Il corpo è contratto, sollevato a massa, i piedi sono fatti precipitare nel vuoto, una liana uncinata lo serra dal centro della bocca. Qualche volta gli appesi appaiono senza testa ciondolanti sull’ambiente circostante mentre un osservatore allungato al suolo li osserva, la testa volta verso l’alto con ghigno sinistro. Manichini umani e metallici ruotano su loro stessi nella violenza implicita del gesto, nella sospensione angosciante del loro guardare e vedersi guardarti in tale estraneità di prototipi semi-umani, equilibristi sul filo teso della vita tendendo verso una qualche verticalità lassù oltre il soffitto, oltre il nero della parete di fondo e il grigiore circostante. Qualche volta appaiono come manichini decapitati _ la testa amputata_ dunque nell’impossibilità anche volendo di guardare oltre, di ascendere volgendo verso l’alto mentre l’atto tagliente, ironico e auto-derisorio di tale posizionamento è enfatizzato da una figura al suolo che osserva la scena con una risata sinistra.




“Conversation Piece”



Un gruppo di figure in resina e poliestere. La parte inferiore dei loro corpi è appesantita da involucri che ricordano sacchi di sabbia. Le figure in una serie di pose statiche, congelate nello spazio, appaiono volutamente più piccole del normale; una tacita conversazione accade tra i due personaggi al centro della scena. Un terzo si protrae verso di loro vistosamente trattenuto da un’altro che gli cinge la vita tenendola serrata a un cavo metallico. Due figure al centro, una sfiora lievemente il volto dell’altro con una mano nel tentativo di parlargli, di comunicare o meglio di trasmettere a lui un qualche misterioso segreto. Con il volto coperto d’una mano sembra volergli sussurrare qualcosa lì in quell’attimo arrestato nel tempo, in quell’ “immobile movimento” investito d’una palpabile tensione emotiva. Il toccare al volto dell’altro emerge in primo piano mentre lo sguardo è cieco nel’impossibilità di vedere, di entrare in contatto con lui e con noi spettatori in parte per questo velo o tela di pietra oscurante che come una patina di grigio-sabbia è sovrapposto all’ultimo strato della scultura. Le figure appaiono più piccole rispetto alle loro reali dimensioni; quali prototipi dell’umano volutamente non devono coesistere nello spazio degli spettatori. Qualcosa tende a isolarle, a renderle estranee, il loro sguardo introspettivo è volto sempre verso l’interno. I corpi ugualmente sono ancorati al suolo, zavorrati a terra da sacchi pesanti scolpiti nella pietra. Le figure congelate nello spazio performativo che contribuiscono a creare appaiono nell’immobilità di pose statiche , di istantanee fotografiche arrestate in qualche modo dal gesto della scultura: prototipi beckettiani di figure dell’attesa,della perdita o dell’assurdo esistenziale, rimandano alla sua de-figurazione del soggetto preso nella trappola dell’ inconscio o del linguaggio.


“The Nature of Visual Illusion”






Lo spazio tridimensionale d’una tenda grigia monocroma è evocato in effetto trompe-l’oeil dallo sfondo pittorico figurato. Lo spazio in realtà è illusorio, fittizio, ricreato per l’effetto d’una pittura mentre tre figure dai lineamenti quasi identici appaiono assorte in discorsi a noi sconosciuti e una quarta li osserva a distanza spiando la scena a lato con ghigno beffardo.

Spazio illusorio: quello che vedo come spettatrice è una messa in scena, un artificio visivo, l’illusione ottica d’una realtà che se pur solamente simulata dal gioco prospettico comincia a esistere nel momento in cui entro in quella “finzione” trascendendo lo spazio puramente fisico degli oggetti e delle figure. Accetto di prendere parte a quel patto in una “sospensione di giudizio” che è anche un atto di fede verso quello che sto sperimentando, vedendo o credendo di vedere nella mia esperienza dell’opera. Quello spazio disorienta la mia assunzione d’una presenza architettonica oggettiva, chiara perché vuoto, privato d’ogni possibilità di comunicazione con lo spettatore e posto in una tensione emotiva tangibile, appunto l'atmosfera lugubre, svuotata del luogo e il senso di estraniamento in cui le figure sono immerse, lasciate interagire. Questo tipo di spazi sono quelli che troveremo nel lavoro di Munoz, spazi architettonici mai completamente diurni o notturni e che pur apparendo svuotati, “denudati”, lasciati a loro stessi là dove la comunicazione appare in qualche modo impedita o rimossa con l’esterno, dunque spazi “fuori dal tempo”, incarnano tanto più una condizione esistenziale, la quintessenza d’una sensibilità dell’attuale. Giustamente perché mancano di identità, perché sono così caricati tensivamente , sensibilmente ma allo stesso tempo restano anonimi, sprovvisti d’una personalizzazione, giustamente interstiziali agli spazi di presenza. Come afferma Munoz a proposito della sua ultima installazione: “ Con questo lavoro ho costretto ogni immagine a essere un’immagine vuota. Gli ascensori non trasportano nessuno, le finestre non conducono da nessuna parte”. Implicano una discesa nella notte, il serrarsi di strade, di negozi, di saracinesche o tende, il momento della chiusura. Ogni cosa appare essere sospesa, tutte le figure hanno gli occhi strettamente chiusi all’esterno nell’impossibilità di vedere.



Dunque da una parte è l’inevitabile “trasparenza dell’illusione” citando Munoz che si trova al centro del suo lavoro, un’illusione architettonica e visiva ma anche performativa o di realtà quale condizione esistenziale che vuole essere costruita e insieme de-costruita, messa in scena nel suo gioco performativo ma anche messa a nudo. Dall’altra parte, gli spazi sono o vogliono essere ricondotti a spazi vuoti, a immagini svuotate o destabilizzanti alla percezione, domandando d’essere esperiti, sentiti più che tangibilmente visti o presentati agli spettatori. Si aprono in verticalità su differenti livelli, sono fatti di ascensori, di varchi al suolo, di cunicoli sotterranei e botole che danno accesso a presunti sottosuoli come in “Double Binds”.

Sono pavimenti ottici o palcoscenici visivi dove strane figure, presenze destabilizzanti, prototipi umani si affacciano, oppure pupazzi muti di ventriloqui in attesa di parole come nella “Waste Land” munoziana. Ancora, possono essere figure in un circuito chiuso, in un meccanismo che si muove a ripetizione nello spazio come per le ascensori ascendendo e discendendo senza sosta in un movimento immoto e continuo, girando su sé stesse per ritrovarsi sempre allo stesso punto.
In “Living in a shoebox”, due figure in miniatura posizionate dentro un meccanismo che si muove senza sosta sulle rotaie di un modellino giocattolo viaggiano perpetuamente sospese in uno spazio claustrofobico, prese dentro un moto di ripetizione continuo del circuito che è anche l’immobilità apparente d’un corto-circuito eretto a sistema. Là nessuna possibilità di trasformazione esiste. Perché, come afferma l’artista, se da una parte “l’immobilità della scultura figurativa resta per me un inspiegabile enigma”, dall’altra “la rappresentazione del movimento e del gesto dentro quell’immobilità è una sfida perpetua e affascinante”.

L’idea di scultura infine,in Munoz, sembra posizionarsi veramente tra tali estremi di immobilità e moto continuo incapsulando il movimento come nelle ascensori ma in modo soffocante, mostrando situazioni in cui si è immobili e ancora ci si muove in un’altra intensità emotiva. Là, le figure presenti in un “immobile movimento”appaiono condannate all’immobilità dell’eterno ritorno, d’una ripetizione immota e senza via d’uscita.





Scorci da un labirinto, ( alcuni luoghi di VENEZIA durante la Biennale College-Danza)











La città si muove costantemente sull’acqua come la danza a Venezia, ad ogni fluttuazione è indotta al moto immobile delle sue onde, dei suoi scorrimenti attraverso i canali, i ponti, nel riflesso dei palazzi sulle superfici stagnanti e luminose delle acque. Dal labirinto dei suoi cunicoli, da stradicciole strette e tortuose s’aprono campi, campielli soleggiati e luminosi, piccole piazze ora assolutamente vuote e silenziose ora affollate da una miriade di negozi e visitatori, e ponti che le collegano ad altre calli e piazze, chiese in mattoni a vista e stretti vicoli selciati dove prima o poi si finisce per perdersi.Là sono squarci di bellezza improvvisa che scorgi inattesi in un angolo di giardino, nella sagoma d'un palazzo riflessa sfumata e ondeggiante sulla fluttuazione delle acque o attraversi i vetri opachi delle finestre aperte d'un edificio antico.











San Trovasio è una scena di teatro naturale, si apre come un campiello luminoso , una nicchia riparata dal vento dove il sole viene a rifugiarsi in mezzo alle stradicciole e ai tortuosi vicoli veneziani. Nel lato principale della piazzetta c’è una chiesa bianca, al centro un grande pozzo coperto, cerchiato da una cornice ugualmente bianca al suolo. Le case sono basse, squadrate, in mattoni indaco, violetto, rosa e ocra; in mezzo si erge il portale della chiesa, un protiro e due colonne esterne, poi ancora altri muriccioli in pietra a vista dal lato opposto. Di fronte è lo scorrere lento delle acque sotto un ponticello che attraversa, una parete di vernice rosa sullo sfondo, alcune barchette ferme a indugiare, a dondolarsi lente sul canale. Intorno al riquadro al suolo sono i saltuari passaggi delle persone o dei turisti che attraversano. Qui si è svolta la performance del coreografo El Mabbed Radhuane e dei suoi danzatori durante la Biennale danza, qui ci siamo spostati insieme al gruppo per assistere alle prove in esterno alla fine d'una giornata. All’arrivo ha disegnato croci bianche al suolo, ha delimitato lo spazio, ha tracciato la scena circoscrivendola con segni di gesso sulla pietra.

 Prove in esterno: i danzatori dovevano essere dispersi nella piazza, confondersi con i passanti, essere là tra la gente comune. I gesti dovevano prendere corpo a poco a poco, i volti diventare intensi, netti, talmente pregnanti che i passanti non avrebbero potuto restare indifferenti. Doveva esserci questo momento nella performance, il punto in cui loro non erano più gente tra la gente ma erano là attori, performer a lasciare la loro traccia, il momento in cui le cose si sarebbero stagliate nette all’orizzonte, indelebili nello spazio, scritte come nero su bianco, come parole d’inchiostro su un foglio nudo.







La sincronia di elementi, qualche volta, funziona talmente bene che tutto sembra corrispondere, combinarsi insieme perfettamente , trovare un proprio posto come ogni nota in una melodia, come gli strumenti nel comporsi orchestrale di una unità d’ insieme. Così, un’alchimia di ferro in oro ha trasmutato uno spazio singolare di Venezia, un scorcio unico del suo paesaggio e un assolo coreografato in un momento di rara bellezza, di singolare potenza espressiva. Ho assistito a tale momento ieri allo Squero osservando Annamaria Ajmone nella sua danza, come di fronte a un’alchimia perfetta di elementi voluta dal caso o dal destino che, se qualcuno avesse tentato di metterli insieme lì volutamente, nella simultaneità del loro comporsi, non sarebbe riuscito altrettanto.



L’ambientazione in primo luogo è la scenografia naturale di questa striscia di terra che come un isolotto appare separata da un corso d’acqua o canale tenendo a distanza gli spettatori dall’altra parte del parapetto. Una striscia di cemento, il catrame nero rilucente al sole, le barche lì approdate a riposare, a essere riparate o costruite nell’officina dello squero. Una striscia esigua separa l’acqua dalla terra ferma, lì dove vengono a infrangersi le onde, riassorbite dalla riva. Vedo parti di navi in costruzione, il ferro, la sensazione oleosa del catrame rilucente nel riflesso oscuro delle acque, i piloni di legno fissati dentro i canali quasi resi putridi dal tempo della loro esposizione. Sfondi di muri in mattoni a vista fuligginosi traspirano rame e ruggine, panni stesi ad asciugare e l’acqua in risacca sbattendo contro la riva.

Vedo gli uomini al lavoro nello squero intenti in un vero e proprio “labor” come una messa in opera quotidiana, l’officina del fare, del costruire navi, di pezzi che si mettono insieme in una composizione: fare con le proprie mani, comporre con il proprio corpo, tenere insieme parti, montarle l’una con l’altra mentre un canale separa e protegge creando questo riflesso magnifico d’acqua a noi spettatori. Più tardi quello stesso spazio sarà abitato, riempito dallo strumento ritmico del corpo della danzatrice in accordo alla musica di Moondog o in improvvisazione su quella, la sua scrittura personalissima, il suo essere là totalmente in una stretta aderenza tra il sentire e la pelle, le articolazioni, le ossa, tutte le singole parti implicate in un movimento che insieme disarticola e segue il fraseggio naturale del corpo. A un momento preciso la figura si avvicina all’acqua, appare vicina a una sospensione, tergiversa, guarda dall’altra parte della riva, dubita,esita un poco e poi torna indietro nello spiazzo di cemento e riprende la danza in un impulso ritmico improvviso come liberandosi, togliendo tutte le barriere per lanciarsi in questo momento di apertura,esultanza, esaltazione danzante e ritmica. Termina, infine, con un’ ironica e divertente nota di musica popolare dondolandosi su un motivo di boogie woogie; nella semplicità del suo essere là con la sua danza mentre noi spettatori guardiamo, incantati, dall’altro lato della riva.