venerdì 24 giugno 2011

Su Patrick Tosani, Maison de la Photographie, Parigi

























Ghiaccio










Il ghiaccio acquisisce trasparenza o opacità, serra o dilata lo spazio, dà una consistenza strana, tangibile, ignota alle forme in esso contenute, estende la materia escludendo ogni possibilità di vuoto. Assume un colore mutevole, verde, rosato o bluastro dovuto alla luce o alla massa d’aria in esso compressa, contenuta.

Figure colte nel pieno dell’azione sono sottilmente arrestate nel vortice di un movimento dal quale sarebbero, altrimenti portate : un nuotatore in lotta con mulinelli e correnti d’acqua sgorganti dalla distesa bianco-mare di ghiaccio irradiata; una coppia di danzatori volteggianti in aria compiendo infiniti circoli, un equilibrista camminando in bilico su un filo appeso, figurine in miniatura rinchiuse entro cubi di ghiaccio sproporzionati, scatole o anonime estensioni ortogonali, palazzi di ghiaccio.

Figure ritagliate in piccole sagome fuse, confuse al fondo ghiacciato; colate di ghiaccio sulle superfici dei palazzi, dei volumi, degli edifici, visi estraniati per l’effetto dell’ immobilità fotografica, ghiaccio liquefacendo in macchie scintillanti al suolo.

Materia unita al fondo dell’immagine, per estensione, per amplificazione dei suoi propri contorni plastici. L’acqua e l’ aria dentro il ghiaccio arrestati, come schiuma decompongono in infinite bollicine, esplodendo in impercettibili ribollii gassosi.










Corpi visti dal basso. Progetto di frammentazione della materia, immagine astratta del corpo.









L’angolo, il punto di vista in "contro-affondo" mostra i piedi e, attraverso questi, il corpo nella sua integralità raggomitolato. Le figure, viste dal basso a distanza ravvicinata attraverso la superficie trasparente in plexiglass, appaiono contenute, compresse nei loro abiti, scarpe, giacche o pantaloni. Il corpo frammentario nel passaggio fotografico, è rovesciato, i piedi posti là dove dovrebbe trovarsi la testa, nascosta dalla massa della figura ravvolta. La posizione del logos appare deviata, obliterata, annebbiata, temporaneamente messa tra parentesi, la centralità del soggetto raziocinante, in pieno controllo delle proprie facoltà mentali e emozionali messa in pericolo, in crisi fino a convocare la risposta d’un soggetto altro, lasciandosi portare dalle incidenze, dalle fluttuazioni, dalle improbabili emergenze d’un ordine poetico auto-generato, in sé legittimandosi.




In un’altra serie fotografica il capo é visto come capigliatura, involucro esterno, agente di copertura che avvolge e fa schermo, in isolamento e frammentazione rispetto al resto della figura, escludendo ogni identificazione del viso per darsi come la punta dei capelli, la cima dell’iceberg, il bordo esterno visibile dall’alto della cosa taciuta, soggiacente che tuttavia mette a distanza l’implicazione del viso come soggetto prediligendo l’amplificazione dell’inquadratura straniante.


La figura cosi’ astratta, appare in contraddizione con la realtà del proprio corpo fisico concreto, soggetta a un processo di de-realizzazione che ne esclude la presenza reale dandosi come schermo della capigliatura o delle scarpe, riempimento del piano visivo, figura sotto-sopra, gesto che copre la superficie per estensione, costruendo uno spazio fotografico come materia distesa, diffusa, liscia, piana e riempita.

Fotografia: gesto che isola, amplifica le potenzialità d’una percezione delegittimante, il potere anche di trasformazione della realtà attraverso lo sguardo e l’inquadratura fotografica.

Abiti/ Maschere










Abito piegato, ripiegato, formattato in figura ortogonale, una macchia liquida, liquefatta sull’asfalto contornando simile a ombra la geometria d’un paio di pantaloni scuri. La forza di suggestione dell’abito rinvia inevitabilmente alla non-presenza del corpo, alla simulazione, illusione, o suggestione, della carne che dovrebbe abitarlo. L’abito dissimula, copre, si rende involucro, apparenza esterna, interrogando quello che contiene di fittizio, la finzione vuota o, meglio, l’enigma d’una soggettività riconducibile all’io-corpo.


Abiti simili a sculture effimere si presentano come sembianze di maschere, partendo da indumenti usuali, qui un paio di pantaloni distesi sull’asfalto, suggerendo in negativo la controparte d’una presenza corporea evacuata, volatilizzata, trasparente di cui resta solo il simulacro irrigidito, imbalsamato, di catrame ricoperto, come investito da un’aurea, avvolto da un alone rilucente di liquame espandendosi a macchia oltre i propri confini.
Macchia luminosa della lucentezza rinata dell’acqua.


Ancora sono le percezioni dei volti come maschere abnormi, grottesche, mostruose dalle cavità svuotate degli occhi dove il calco, “moulage” resta come la corteccia morta, solidificata, dissecata,
 la cavità restante d’una materia originaria trasfigurata, svaporata, scomparsa.
I volti percepiti come calchi vuoti, gli occhi restano questi passaggi verso il nulla,

il bianco di fondo d’un corpo-maschera. Io-corpo, individualità svuotata dall’interno oppure la scelta d’un punto di vista esterno, d’uno sguardo che penetra attraverso le cavità-occhi,
varchi, passaggi verso il nulla, verso l’oscurità che l’umano porta in sé, spaventosamente affacciandosi, lasciandosi risalire dalle profondità allo stato più scoperto di superficie,
tanto che la cera, materia o densità della carne ne esce divorata, corrosa,
dall’interno scavata fino a improntarsi in tali calchi grotteschi.












Serie “Piogge”



Fabbricazione della pioggia: costruzione progressiva dell’immagine su un tavolo d’atelier rinviando tuttavia a una memoria reale, a un’esperienza sensibile che portiamo in noi di tale fenomeno.
 Come costruire un’immagine fotografica, come riempirla metaforicamente, poeticamente?
 La pioggia sarebbe il materiale di riempimento di questo spazio fotografico che
s’ auto-genera, si definisce per estensione, per saturazione di linee colmando tutta la superficie visibile fino a eclissare l’idea stessa dell’oggetto fotografico.

Superficie- schermo dunque, superficie riflettente dove anche il volto di chi guarda resta impresso, intrecciato, imprigionato tra le sue linee e punti.

L’aspetto mobile, fragile, ineffabile della pioggia, la variazione dei suoi scorrimenti attraverso segni di interruzione plastici posti sotto il flusso dell’acqua, segni di punteggiatura che ne modificano il tragitto.

Pioggia invasiva, dilagante riempie lo spazio come la luce del giorno farebbe; E' tenda, velo o cortina, variazione di intensità prodotta dai segni grafici posti sotto il suo precipitare.
Pioggia e croce gotica al centro la fa fluire, confluire ai lati in ritornelli, gorghi turbini, flutti, guizzi o schizzi d’acqua fino a scavare piccoli solchi a terra sul suolo fangoso.
La croce devia la caduta torrenziale d’acqua altrimenti dandosi come distesa rilucente, schermo a raso, tenda in acciaio brillante o cortina argentea .
La pioggia ora diviene sbarramento, occlusione, negazione, interdizione a attraversare un territorio.

L’acqua scivola ai lati delle barre laterali d’un pianoforte in levitazione sospeso al centro dell’immagine; continua a creare, imprimere, disegnare solchi, piccoli dossi, rigature, impronte, abrasioni al suolo.
Pioggia torrenziale in caduta libera, pioggia in scorrimento, movimento e flusso.
Pioggia e linea trasversale, sbarra, riga o diagonale che si disegna come antro, apertura d’un passaggio obliquo.

Pioggia e grande punto e virgola plastico, punto di sospensione, di temporaneo arresto;

croce, sbarramento, messa tra parentesi, punto a capo, nuova emergenza.



Tamburi


L’immagine si sviluppa in rapporto alla superficie, qui la superficie d’uno strumento percussivo reso significante dal suono, dal battito, dalla ripercussione prolungata della sua pelle esterna attraverso una ritmica chiara, scandibile, ripetuta, poi nell’eco prodotto della sua risonanza. Se “la fotografia era sorda”, presa entro il limite della propria specifica figuratività, diviene qui superficie riflettente, sonora, espansiva facendo dimenticare l’oggetto della sua prima registrazione, portata totalmente alla superficie, specchio entro il quale noi stessi visitatori siamo chiamati a confrontarci, interrogare, infrangere la nostra propria immagine. Superficie sottile, musicale, percuotente nell’abrasione della propria pelle esterna per l’energia prodotta dai battiti ritmici, percussivi e ripetuti. Lo strato della prima epidermide scomparsa, essa si fa territorio iscritto, segnato, inciso, geografia di spostamenti e risonanze nello spazio, superficie visiva e tattile che insieme evoca e scongiura il suo stesso processo d’erosione.



















Architettura e fotografia


Colate di colore su edifici cubici, monocromi grigiastri immersi in una diluizione colorata.
 Colate di rosso, arancio, blu, verde smeraldo, incenso, ocra, indaco in stratificazione progressiva, in diluizione regressiva, in contaminazione inclusiva dall’uno all’altro.
Fluidificazione di forme-blocchi granitici per uno spazio che s’apre in senso rizomatico, dilatante contro il volume a radice unica del blocco orizzontale, verticale o cubico.
Spazio utopico, immaginativo, reinventato dal colore che si nutre di apporti e stratificazioni multiple.

In “Forum” è il fuoco che crea la colata incandescente, l’effetto rosso-traslucido, abbagliante in diluizione infuocata sulle forme cubiche, massicce, volumetriche della città. Fuoco, colore ocra, giallo, bruciante , dissoluzione delle forme prese nel calore del rosso, arancio-fiamma. Paesaggio infernale o apocalittico vivificante per l’immaginazione immerso in questo bagno di colore.





mercoledì 8 giugno 2011

Omaggio a Duras




Nella camera oscura del linguaggio restare ad ascoltare il movimento immobile delle onde, questo malessere d’acqua,

ronzio percuotente, rumore che non passa, e il terrore intorno che lo trascina.


Bisognava passare di là, passarci e tuttavia passare oltre, passare attraverso questo malessere singolare d’essere in vita e farne qualcosa, parole o altro, non-lettere scritte.
Non preoccuparsi delle parole, non cercare, nulla da trovare, lasciarsi fare, lasciare scrivere ,
Nulla di sacro, nessun messaggio, né voi né io, e raggiungere per inavvertenza, per sbaglio, per distorsione voluta, per deviazione guidata o deriva danzata. La frase scritta non significa nulla,
vuol dire altro da quello che si sente, quello che si dice,
qualche volta la si svuota, la si evacua di valore. Alla svolta d’ una parola, alla luce chiara e tiepida dell’alba là per la prima volta, uno sguardo che vi guarda, non più da un viso diviso, stralci di conversazione ricorrente, il calore d’un corpo vicino al vostro,
 morto appena-vivente, il suo battito. Domani quando vi sarete svegliati, un avvenimento banale che si produce e ricorderete i nomi, ricomincerete a inventare ogni cosa dall' inizio.
Nella camera lasciate uno spiraglio di luce, un bagliore appena percettibile attraverso gli scuri per permettervi di dormire.

Guardate il cielo ad occhi chiusi,il mondo intero degli inizi, li’ dentro di voi. L’irradiazione solare, abbagliate ad occhi chiusi. Nessuna figura, solo impronte appena tracciate di dita, linee morbide, fluttuanti, mobili, disintegrandosi a distanza in pulviscoli d’aria, in minuscoli lapislazzuli, in scintille colorate e punti riassorbiti da un fondo rosso luminoso , in polvere di pietra azzurra e proliferazione trasparente, inaudita di segni.

Trascrivere e scomporre, omettere e tralasciare, contornare quello che si sta producendo, risonanze, topografie di voci nello spazio, la verità di non si sa cosa.
Reinventare parole antiche quasi senza poter più scrivere, trascrivere a mala-pena, appena,
in assenza di pena, male-appena, appena per farne mozziconi, stralci di frasi, residui di sostanze reagenti depositati al fondo del recipiente,
pezzetti di cose rimaste dopo una combustione ,
umori nebbiosi del giorno, briciole, precipitati di materia liquida,
molecole o singoli ioni, miscugli di sabbia e sale , sabbia e limatura d’argento.

"Annebbiamento, contaminazione velenosa, non ci si può nulla é cosi’"
Da questo luogo disertato, tenersi ancora in prossimità d'una qualche verità, qualcosa che mi è detto, parole nate da un luogo d'assenza, continuare a cercarle, cercare anche solo di non raggiungerle.

"La sonorità inaudita d’una parola infine trovata farebbe tacere tutte le altre, ogni musica esterna, ogni rumore o balbettio di fondo. Farebbe solo corpo al votro corpo ."