mercoledì 1 maggio 2024

"Exodus", Sebastiao Salgado ( al Mar di Ravenna)










Sono storie di esodo, di migrazioni obbligate per milioni di persone che ogni anno, nel mondo decidono di lasciare la propria terra a causa di disastri naturali, per l’ingente povertà che spinge alla ricerca di prospettive migliori o destini differenti, oppure per la violenza di una guerra che mette in fuga interi gruppi di popolazioni; notizie che ogni giorno popolano le cronache del nostro occidente europeo. Tali storie, ugualmente documentate dallo sguardo lucido e visionario di uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, Sebastiao Salgado, sono al centro di “ Exodus: un’umanità in cammino” attualmente esposte al Mar di Ravenna fino al prossimo giugno. Nonostante sia passato più di un decennio da quando “Exodus” è stata esposta per la prima volta, il tema resta più che mai attuale perché nuove crisi periodicamente  si ripresentano_ rispetto a quelle documentate dal fotoreporter negli anni ‘90_ma i migranti e i profughi di oggi vivono esattamente nello stesso baratro tra disperazione e speranza, gli stessi momenti tragici o eroici legati al destino di ciascun individuo o di interi gruppi di popolazione. Raccontano a distanza di trent’anni la storia del nostro tempo, gli sconvolgimenti globali che accadono nel mondo attuale spinti dal crescente divario tra monopoli di ricchezza e diffuse aree di indigenza e marginalità, la crescita demografica esponenziale, infine la crisi prodotta dall’emergenza climatica in atto.

Quasi tutto ciò che accade sulla terra è in qualche modo collegato” afferma la curatrice Lélia Wanick Salgado, perché una crisi prodotta da una guerra per esempio quella russo-ucraina o a un imprevisto disastro ambientale in una parte remota del mondo influenza e ha delle ripercussioni in tutto il resto del pianeta. “Le persone strappate dalle loro case sono solo le vittime più visibili di un processo globale. Le fotografie qui rappresentate “catturano momenti tragici, drammatici ed eroici di singoli individui” e tutte insieme raccontano anche una realtà che ci appartiene, “ la storia del nostro tempo”. Come sottolinea la curatrice: “Esse non offrono riposte ma al contrario pongono una domanda: nel nostro cammino verso il futuro non stiamo forse lasciando indietro gran parte del genere umano?”

La fotografia documentaria ha portato Salgado in giro per il mondo attraverso i cinque continenti. Le immagini suddivise in varie sezioni spaziano da una parte all’altra del pianeta toccando temi diversi legati al nodo centrale dell’esodo. Nella prima parte si parla di migranti e profughi di oggi contro il loro stesso volere in immagini emblematiche del nostro tempo. La seconda sezione è dedicata alle crisi che hanno investito il continente africano negli anni ‘90 come i profughi ritornati in Mozambico dopo la guerra o la crisi umanitaria in Ruanda. Nella terza parte si parla di America latina con le migrazioni di massa avvenute dalle zone rurali a quelle urbane dando vita alle grandi metropoli del sudAmerica come Città del Messico e San Paulo circondate da estese baraccopoli. Segue la serie di Salgado che racconta la sovra-popolazione in Asia e la creazione di megalopoli come Shangai, Bombay ecc segnate dalle condizioni precarie di vita della maggioranza. Chiude la mostra una selezione di volti arrivati dai quattro angoli del pianeta, perlopiù ritratti di bambini _ spesso le prime vittime delle guerre, degli esodi o comunque della povertà_ ma qui posizionati al centro dell’obbiettivo come i protagonisti indiscussi in un atto di riscatto, inaspettato e lui epifanico.

Migranti e rifugiati: Cap Saint Jacques













Una spiaggia deserta immersa nel profondo chiaroscuro della foto in bianco e nero quasi a immagine di un’umanità sopravvissuta da un immenso diluvio universale sulla terra. Una barca solitaria è spinta a riva da pochi uomini, salvata dall’impetuosità delle acque quasi fossero approdati in una terra promessa dopo il diluvio che ha visto spazzare via tutte le restanti creature. Ancora è l’immagine di una spiaggia deserta da cui sono pronti a partire centinaia di migranti verso l’ignoto oltre la violenza del mare, al di là dell’impetuoso scrosciare delle onde a riva a segno di un incerto, spaventoso destino.

Nella foto successiva una bambina guarda lontano l’oceano oltre il suo infrangersi violento sulla riva là dove le acque hanno portato via i suoi cari e dove altri sono partiti o scomparsi in mezzo ai fiotti, forse divorati dalle correnti. Sulla sabbia parole scritte restano incise come geroglifici primordiali sulla roccia per lasciare una traccia, la memoria da chi è scomparso, portato via dalle correnti o da un  destino avverso.

Lo stretto di Gibilterra

In una notte tempestosa una massa di fumi densi e grigiastri si alza su quel varco infernale tra cielo e terra ad avvolgere i drammi diffusi di tante morti anonime. Migliaia di tentativi di fuga   affossati lì, tra quelle acque; i volti di un’umanità ferita e dispersa ancora in cerca di salvezza.

A proposito di guerra : “La strada principale di Kabul” ( 1996)



Distrutta dai bombardamenti, disertata dai civili in tempo di guerra, il centro di Kabul appare a distanza come un paesaggio desolato, astratto nel chiaroscuro dell’immagine in bianco e nero e svuotato di presenze: relitto e insieme cicatrice di uno shock violento e distruttivo. Rovine di palazzi e cumuli di macerie si ergono lì insieme alle ombre oscure degli individui che la attraversano  restituendo l’immagine di una città fantasma. Visione emblematica di ciò che resta nel passaggio violento e irreversibile di tutte le guerre. 

Campo profughi palestinese”

Sorridono questi bambini nonostante tutto relegati dentro lo spazio ristretto e murato di un campo profughi per rifugiati palestinesi in Siria. Esprimono la voglia, malgrado la situazione drammatica, di libertà, leggerezza e gioco, l’incanto nello sguardo dei bambini identico in tutto il mondo dovunque essi si trovino, liberi o reclusi, arabi o israeliani, la loro curiosità e irriverenza verso la vita come la voglia di correre e muoversi liberamente e senza freni. Ali di libertà disegnate su un muro del campo profughi e versetti del Corano trascritti a caratteri arabi si stagliano come geroglifici oscuri, magnificenti e grandiosi di un codice a loro solo decifrabile. Accanto, la grata di una finestra dietro la quale altri bambini sono reclusi o trattenuti dentro lo spazio ristretto e regimentato del campo.

Una profuga kosovara in Albania


 Giace rannicchiata sullo sfondo di un paesaggio arido e brullo dove null’altro si erge se non la linea di demarcazione tra cielo e terra e fili spinati in primo piano lungo una barriera che preclude l’attraversamento e la avvolge tutt’intorno. E’ avvolta da una coperta nel freddo invernale e forse proviene da un campo profughi lì nelle vicinanze. L’immagine  emblematica racconta un’umanità vista in uno strato di esilio permanente, obbligato e senza speranze: condizione dei molti costretti a spostarsi in altre zone della terra inseguendo un destino vagheggiato di agio e libertà. Un paesaggio raso al suolo da eventi devastanti fuori dal suo controllo; l’individuo al centro come nodo problematico e esistenziale.


Una strada è simbolicamente aperta attraverso un paesaggio, dissecato di massi e di rocce. Un bambino percorre quel sentiero aperto tra gli sterpi come fosse alla ricerca di una via di d’uscita o di salvezza. Quell’alternativa immaginata o sognata spinge la maggior parte dei migranti alla fuga verso l’ignoto, all’attraversamento dei confini alla ricerca di orizzonti ancora possibili. Sullo sfondo, dalla parte opposta della strada, alla stazione di Ivankovo è un treno fermo dove un centinaio di profughi hanno trovato un alloggio di fortuna in Croazia durante la guerra.











African Tragedy

La serie di fotografie scattate nel continente africano negli anni ’90 documenta la crisi umanitaria accorsa in Ruanda in seguito alle vicende tragiche di violenza e persecuzione che hanno segnato la popolazione durante la guerra civile. Ruandesi in cammino verso un campo profughi in Tanzania appaiono nella foto; donne e bambini con la loro casa fatta di poche coperte e cocci essenziali sulla testa camminano a piedi nudi mentre la strada si dispiega  limpida di fronte a loro, il cielo basso e coperto di nuvole nella semi oscurità del tramonto. La savana li scruta a distanza sullo sfondo. Partono lasciandosi alle spalle una terra di atrocità e miseria verso un futuro incerto e oscuro. In un’altra foto vediamo un accampamento di profughi ruandesi in Tanzania fatto di tende per dormire di notte lungo il cammino, pentole e le ceneri di fuochi spenti nell’oscurità.

Mozambico: un popolo in cammino verso una nuova vita attraversa il grande ponte in prossimità del lago Malawi per tornare in patria dopo quindici anni di esilio in Tanzania. Una donna e un bambino avvolto in fasce sulla sua schiena si scorgono tra le fronde di una piccola piantagione verde sopraffatta di foglie e sterpi. Cominciano una nuova vita coltivando la terra che erano stati costretti ad abbandonare quindici anni prima, tornati a casa alla fine della guerra.  































La sezione America latina: esodo rurale, disordine urbano” mostra in una prima foto un villaggio Moruba nella foresta amazzonica in Brasile dove l’essere umano appare ancora in uno stato di connessione profonda con la natura ancestrale e immutata che in sé stessa esiste in un suo eterno divenire. Una giovane donna dalla genuina bellezza si bagna nelle acque di un ruscello in prossimità di una cascata mentre altri bambini e donne del villaggio si mostrano sotto una luce irradiante a contatto con gli alberi ancestrali. Le acque limpide del fiume riflettono in una visione edenica e quasi irreale di paradiso terrestre.  Altrove, in altre fotografie sono le baraccopoli affollate dei migranti a San Paolo o a Città del Messico o ancora le sommosse del Movimento Brasiliano dei Senza Terra per rioccupare parte dei territori dominate dai latifondisti e indispensabili alla loro sopravvivenza.

La sezione Asia, il nuovo volto urbano del mondo documenta il passaggio dalla diffusa  povertà rurale alle nuove megalopoli asiatiche come Shangai, Giacarta, Bombay o Manila dove i migranti vivono in condizioni precarie spesso di sfruttamento e marginalità alle periferie degli immensi centri urbani. Vediamo una stazione enorme e sovraffollata dal traffico costante di migliaia di persone ogni giorno a Bombay, una moschea a Giacarta dove il singolo si perde nella schiera anonima e senza volto di copricapi bianchi in questa marea indefinita di esseri umani inchinati di fronte alla divinità. E, ancora, lungo il molo di Marina Drive un diseredato se ne sta disteso, avvolto da una coperta logora con alle spalle solo il volo dei gabbiani sulle acque ferme della banchina e, ancora più lontano, i grattacieli anonimi dell’immensa e scintillante megalopoli asiatica. 



Portraits  

Ritratti di bambini, limpidi e meravigliosi raccontano storie provenienti da tutto il mondo visti in primo piano semplicemente nella loro intrinseca autenticità e bellezza. Il fotografo ha lasciato loro la libertà di scegliere la posa o il gesto nel ritratto. Le espressioni, lo sguardo appaiono ora velati di malinconia e tristezza, ora sprigionando allegria e speranza. Dai quattro continenti questi bambini affrontano la macchina fotografica scegliendo di rendersi visibili, esposti al mondo in uno scatto fotografico e su una pellicola. Soli di fronte all’obbiettivo scelgono infine di essere visti e autodeterminarsi, loro le prime vittime dei fenomeni migratori, delle fughe obbligate o di chi la guerra rende profughi e esuli.   Il fotografo rivela di ciascuno di essi una limpida verità secondo il proprio contesto e cultura, fisionomia o destino da cui sono stati segnati. Li mostra in una verità gridata senza altro parametro o giudizio che la loro intrinseca bellezza di esseri umani, unici, singolari, limpidi di fronte all’obbiettivo.