Oliviero Toscani, ovvero più di 50 anni di meravigliosi fallimenti là dove l’errore, la caduta, il tentativo o il percorso in via di definizione sono visti dal fotografo come pura possibilità, sperimentazione o ricerca “in progress” altro dal sentirsi arrivati per aver definito uno stile peculiare o essere giunti a un punto di indubitabile affermazione. Per Toscani, al contrario, fotografare significare costantemente uscire dai sentieri battuti, rompere gli schemi etici, estetici o di costume, le categorizzazioni entro cui la società e dunque l’arte dell’immagine pensa sé stessa in particolare rispondendo a logiche di mercato o di profitto alla base di molta fotografia commerciale d’oggi. “Sono un testimone del mio tempo con l’arte che conosco, la fotografia, usando un cervello, un pensiero , un cuore”, afferma Toscani, anche e soprattutto nel contesto della foto di moda dove l’artista riesce a ritagliarsi uno spazio di indipendenza, libertà e critica sociale con Benetton in Italia a partire dagli anni ‘80. La retrospettiva su Toscani attualmente al Mar di Ravenna ripercorre la carriera del fotografo con oltre cento scatti che spaziano attraverso le sue campagne più famose su temi come il razzismo, l’omofobia, la pena di morte , la guerra, anoressia ecc.
L’artista deve “avere il coraggio di essere contro”, afferma Toscani perché “il conformismo uccide la creatività e finisce per annientare l’umano”; deve avere il coraggio di affermare una propria soggettività attraverso uno sguardo, cioè il proprio modo unico, assolutamente soggettivo, parziale e forse a tratti distorto o velato dalle proprie ombre, eppure non schiavo dell’industria culturale o dal processo di omologazione e appiattimento culturale in atto. Se, come egli afferma, non esiste un’immagine unica di realtà ma che la fotografia è l’immagine attraverso la quale rendere la propria visione, dare ad essa una storia, uno sguardo e un colore, farne, insomma, la propria immagine, “bisogna essere bravi autori: usare la fotografia per vedere quello che si vede, non quello che si guarda”.
Toscani fotografa decine di migliaia di volti, visitando città, piazze, paesi in Europa e nel mondo fino a rendere le strade il suo studio itinerante nel corso degli ultimi anni di lavoro. “Impronte somatiche catturano i volti dell’umanità”, la morfologia degli esseri umani semplicemente secondo il fotografo per capire a un primo livello “come siamo fatti”, nelle nostre differenze somatiche, sociali e culturali come umanità. Una infinita galleria di ritratti di una anonima serie di volti, le fotografie non sono mai casuali istantanee ma osservazioni minuziose,attente e approfondite, non la semplice copia ma un’ appropriazione sottile dei volti in primo luogo per giungere a catturarne un’essenza di verità.
La razza umana appare qui come una soggettività collettiva, una miriade di sfaccettature, un prisma colorato e multiforme, l’apparente composizione o collage di volti che insieme giungono a comporre questa immagine multipla e sfaccettata, rizomatica e interconnessa che in sé stessa confuta una visione unilaterale e monolitica della nostra società. L’intero spettro dei volti, come una vibrazione fatta di tutte le frequenze possibili è là per frantumare l’idea omologata e globale di un sistema dove tutto si uniforma, si clona, si copia e si riproduce in assenza di un originale. La fotografia qui, ancora, visualizza nella sua essenziale messa a nudo dei volti la coesistenza e la forza intrinseca a tali differenze costitutive della nostra contemporaneità, del nostro reale metissage etnico e sociale, culturale e di vite . I ritratti frontali, a colori, rappresentati con uno stile essenziale e diretto, prima di ogni manipolazione o contraffazione dell’immagine, si vogliono uno studio del volto, un modo di esporre una differenza semplicemente guardando.
Eppure ogni volto, ogni immagine è amplificata, sublimata, espansa di fronte ai nostri occhi annullando a poco a poco ogni altro sfondo, esposta senza giudizio o condizionamenti politici o ideologici di ogni sorte. Il volto, come quello di questa bambinetta del Guatemala dagli occhi trasparenti e lavati di pianto, fisso su di noi di fronte all’obbiettivo, appare in primissimo piano limpido, epurato e intenso nella sua intrinseca semplicità come una “ricerca dell’anima” del soggetto e dell’immagine secondo Toscani.
I ritratti dal mondo, invasivi, espansi, magnificenti dalle pareti della galleria arrivano a noi entrando in un dialogo sottile e autentico nel loro darsi nitido, immediato ed essenziale in qualche modo sfidando il nostro sguardo.
"Against Racism"
Grande mano bianca, piccola mano nera, il gesto di offrire, prestare, condividere la tua mano, tu che appartieni al mondo, bianco, ricco e occidentale all'altro lato del mondo, all'altra parte o emisfero del pianeta che è agli antipodi del nostro, nella relazione tra Europa e Africa, tra questo epicentro e il mio sguardo decentrato al di fuori. Grande mano bianca, piccola mano nera, una stretta, un contatto, uno spazio di pelle, come condividere qualcosa al di fuori dell’inegualità. L'immagine suggerisce un terreno comune di interazione e dialogo, politicamente: un interfacciarsi dall'uno all'altro nel proprio modo d’essere, di dirsi, di dialogare sincronicamente nel mondo.
“White, black, yellow hearts” , titola la fotografia figurando tre organi cardiaci estratti a vivo e mostrati come parti anatomiche in primissimo piano, ravvicinate a raso dell’immagine.
Appaiono lì visti come cuori nudi, carne animata ancora dalle pulsazioni del battito vitale, come se tutti gli individui, gli esseri umani volessero essere posti su uno stesso piano, riportati a quel livello primario, primordiale e vitale di pulsazione che anima il vivente, del battere e fluire della vita in primo luogo attraverso il più basilare battito cardiaco. L’immagine riporta la dialettica dell'appartenenza e identità etnica prima di ogni gerarchia culturale o di potere alla carne nuda mostrando come le strutture culturali agiscono da sempre per costruire le gerarchie del mondo dalle quali siamo determinati.
Più evidente è qui sottrarre che non mostrare, lasciare spazio al corpo cancellato, lasciarlo parlare dal luogo della sua assenza.
Wart è acronimo di war and art, guerra e arte, montaggio video di immagini in accostamento rapidissimo, shoccante e fulmineo ispirandosi in qualche modo ai principi del montaggio filmico russo. Immagini inflazionate dalla tradizione pittorica si alternano rapidissime ai violenti conflitti contemporanei con risvolti a tratti perturbanti di recenti guerre e massacri intorno al mondo: Guernica di Picasso e l’attacco alle torri gemelle di New York nel 2011, ancora le guerre in Iraq e Siria con scene di fucilazioni della tradizione pittorica neoclassica, la zattera di Gericaux in mezzo a mari tempestosi e sbarchi di emergenza di navi clandestine cariche di profughi e immigrati sulle nostre coste al largo del Mediterraneo. Accostamenti azzardati e volutamente assurdi, paradossali o violenti nella loro portata visiva sono lì a ricordarci che pur nel mutamento di linguaggi e tecnologie, di spazi e stili, nello scorrere del tempo e della storia i paradigmi di violenza e sopraffazione, dominazione e sopruso sull’ altro continuano a ripetersi ciclicamente quasi intrinsecamente perpetuando istinti costitutivi al fondo della nostra umanità che non la storia ne i suoi massacri ripetuti di interi popoli sono riusciti a modificare.
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