Surrealista il suo modo di osservare il mondo, il ricorso a metafore e paradossi visivi per raccontare attraverso le immagini, ancora il rivelarsi a tratti sorprendente di una bellezza inattesa scavando sotto l’usura del quotidiano; tale lo sguardo surrealista per ispirazione e stile dell’artista Lee Miller nel corso di tutta una vita pur nell’evoluzione delle immagini e degli accadimenti. Tanti volti in un sol volto, tante sfaccettature in una sola personalità, nel corso degli anni la musa ispiratrice diviene fotografa, Parigi diviene New York poi il resto del mondo, la ricerca modernista pura astratta si trasforma nella fotografia documentaria durante l’epilogo tragico del secondo conflitto mondiale. La retrospettiva “Surrealist Lee Miller” attualmente a Palazzo Pallavicini a Bologna raccoglie le immagini più significative di una carriera, da quelle iconiche e d’una perfezione stilistica ineguagliabile entrate a pieno titolo nella storia della fotografia moderna e quelle che come tracce, segni o punti incidenti marcano la storia del nostro ultimo secolo di guerre in Europa.
L’eleganza innata della figura, i tratti puri e raffinati del volto, l’atteggiamento distante e altero, Lee Miller diviene dagli inizi della sua carriera il nuovo volto della moda Newyorkese sulle copertine di Vogue dove lavora a partire dal 1927 con Condé Nast. Approda a Parigi l’anno successivo inviata da Nast per incontrare il fotografo surrealista più in voga dell’epoca Man Ray iniziando con lui una collaborazione proficua come modella e musa al centro dei suoi più noti ritratti. E’ allora che Miller si inizia al lavoro fotografico sotto la guida dell’eccezionale maestro: vuole che lui le trasmetta i segreti della camera oscura, la perfezione della presa di immagine o la sua voluta distorsione; sperimentando con la nuova estetica dell’avanguardia giungono a sviluppare la tecnica della solarizzazione. “Oggetti trovati” del quotidiano, immagini dai contrasti tonali esasperati nella sovrapposizione luminosa, particolari estraniati dal proprio contesto per divenire altri, misteriosi e perturbanti, tali le immagini che accomunano la ricerca estetica degli anni più propriamente surrealisti.
“Nude bent forward” ( nudo piegato in avanti) ne è l’esito più evidente. Il nudo femminile visto di schiena in primissimo piano ingigantito e ripiegato su sé stesso al centro genera un’ immagine equivoca, astratta e insieme perturbante allo sguardo. Allude a rotondità sensuali e tondeggianti, ondulatorie e sinuose evocando nell’inconscio una chiara simbologia sessuale al femminile e insieme avvolgendola di un’aurea di mistero e inconoscibilità. Altre volte sono contorni iconici di volti o figure resi in maniera assoluta, epurati in linee essenziali dalla realtà che come moderne icone pop, espongono sé stessi in una simulata nudità di superficie. Tuttavia, l’ottica surrealista permane sullo sfondo, l’idea che l’arte debba attraversare le soglie del cosciente, del convenzionale o consueto, esplorare il sogno e ogni altra manifestazione dell’inconscio come l’irriducibile del razionale e del senso comune. E, ancora, cercare come voleva Baudelaire, la poesia della realtà in segrete, misteriose corrispondenze parte di una totalità cosmica pre-esistente.
1929. La musa diviene fotografa e rende soggetto fotografato il maestro. I ruoli si invertono e lo sguardo di Miller sorprende e immortala il volto di Ray a metà coperto di schiuma nell’atto di radersi. Il suo volto appare a metà nitido e intagliato in linee incisive nell’effetto solarizzato, a metà liquidato, tratteggiato e in parte rimosso, reso nebbia o fumo dalla distesa del bianco. Sul nero della capigliatura, sullo sguardo unico, intenso e presente di Ray, sulla fissità del medesimo che si proietta lontano oltre il momento presente il bianco e nero si compongono in una perfetta simbiosi come un’impronta di presenza e su un fondo di cancellazione preesistente.
Ancora il volto di Ray irrompe di fronte all’obbiettivo sorpreso in primo piano, spiato contro il suo volere dalla fotografa attenta a coglierne le sfumature, il controluce d’ombra, il risvolto sottile di ciò che il ritratto-icona non svelerebbe. Surrealisti in questo senso sono gli inconsueti scorci fotografici di Lee in quegli anni: scarpe pietrificano in ghiaccio, pietre si rivelano masse animate simili a mani, sabot tracciano impronte lievi di passi al suolo, infine un volto resta intrappolato dentro una campana di vetro trasparente e crudele. In “ritratto allo specchio” una donna è colta di profilo oltre la patina della fotografia convenzionale di moda. Pensosa, avvolta da un lungo cappotto di feltro in una posa statica ed elegante da un lato dello specchio_ immagine inflazionata della moda parigina_ si rivela quasi in un controluce discordante e inquieto si sé dall’ altro lato. Quasi volesse oltrepassare la soglia di realtà e correre lontano oltre lo specchio per ricongiungersi all’altro segreto e recondito ritratto di sé. E’ lì nell’ assenza o nell’ attimo di improvviso smarrimento, nell’infelicità inspiegata e momentanea di un istante, in uno spazio-tempo altro non della vita ma propriamente dell’anima.
Negli anni 30 Lee Miller si trasferisce al Cairo in seguito all’ inaspettato matrimonio con un ricco imprenditore egizio per ritornare a Parigi nel 1937 e ritrovare la vecchi cerchia di amici surrealisti, da Picasso a Ernst, da Cocteau a Mirò. Degli anni in Egitto sono gli scenari di villaggi e rovine nel deserto sub-sahariano all’ ombra delle monumentali piramidi.
“Portrait of space”, Ritratto dello spazio: come percepirlo se non attraverso l’apertura, lo strappo inatteso, la fenditura lieve di una tenda, velo o zanzariera. Un’apertura verso l’al di fuori, l’idea di irrompere e aprire una breccia, oltrepassare i confini, i limiti fisici e di pensiero per andare oltre, verso il deserto, la nuova frontiera di libertà e esplorazione come ci si gettasse in un mare aperto oltre i limiti della stanza. La foto apre a questa dimensione altra dello sguardo e dell’immaginazione immergendoci alla ricerca di tale spazio, personale e di movimento, di libertà e d’azione mentre dischiude un piccolo varco, una breccia semplicemente entro l’orizzonte conosciuto del nostro mondo abituale. Piccola cornice, grande apertura forse attraverso la maglia rotta di una rete , là è andare verso l’aperto in senso surrealista secondo Lee Miller.
“Dalla cima di una grande piramide” un’ombra immensa e spaventosa si espande e si propaga, discende in tutta la sua altezza e rende il villaggio un arido deserto, il suolo assolato e brullo ricoperto della consistenza di una grande ombra , un’oscurità densa e abitata, che dilaga come una minacciosa presenza in mezzo al vuoto circostante.
La fotografa si trova a Londra allo scoppio della guerra rifugiatasi lì con il nuovo amante Roland Penrose in fuga dal precedente matrimonio. Fotoreporter durante la seconda guerra mondiale diviene corrispondente di guerra accreditata dalle forze armate americane perseguendo una fotografia di reportage nuda e spietata agli antipodi della precedente estetica surrealista. Documenta durante quegli anni tragici e atroci i bombardamenti su Londra, l’Europa ricoperta di macerie, il ruolo inedito e coraggioso svolto dalle donne durante la guerra, le operazioni di liberazione da parte delle truppe alleate americane nei giorni dello sbarco a San Malò e in quelli successivi, Lee in prima linea sul fronte insieme ai soldati.
Una visione cupa di Londra intorno al 1940, ombreggiata come l’edificio che si erge al centro della foto fa presagire lo spettro del nazi-fascismo in Europa con l’invasione della Polonia insieme allo scoppio imminente della guerra. Dello stesso anno è la visione molto più simbolica di “Revenge on culture” (vendetta sulla cultura): le statue classiche greco-romane dei templi cadute a pezzi insieme ai libri sono deposte al suolo avvolte da un nastro nero. Dal poema di Eliot l’ammasso di immagini infrante della civiltà occidentale, frammenti di umanità dispersa e pezzi naufragati di cultura lottano per sopravvivere in un mondo oscurato da forze infernali scatenatesi come bufera su questa “terra desolata”, privata d’acqua e di vita perché immersa in una aridità pietrificante.
Una macchina da scrivere esplosa appare con molle, lettere e tasti saltati in aria in seguito alla detonazione di una bomba in “Remington silent”: cavi strappati, pezzi di ferro, lettere esplose, parole rimaste intrappolate nel “linguaggio rotto o fatto a pezzi” dalla guerra. E ancora seguono le rovine di Londra, il tetto crollato della University College, donne reporter o infermiere dai volti completamente occultati e coperti da maschere protettive eppure tanto più reali e presenti ora nella loro umanità che non i ritratti puri e denudati, limpidi e iconici degli anni venti. Lee Miller in prima linea su fronte schierata tra i soldati, indossa abiti militari e una maschera antigas, mostrandosi pronta all’attacco, ferma e determinata, tra mine e esplosioni imminenti all’ingresso della fortezza di san Malò in un volto inedito mai visto prima per la fotografa.
La guerra è finita, Hitler sconfitto, l’Europa è devastata dai bombardamenti e coperta di macerie; l’orrore e la rabbia dei crimini di guerra ancora pervadono, possenti, impossibili da affrontare, redimere o in qualche modo liquidare. In una visione di Parigi la città è coperta di neve e ghiaccio, le ombre di morte e l’oscurità imperanti. Figure spettrali e oscure si allungano sull’ampio sentiero di Chaillot ricoperto di bianca neve mentre la torre Eiffel scompare come una silhouette sbiadita all’orizzonte; sulla superficie di morte il bianco manto dell’ oblio discende invocando la luce della dimenticanza.
In Germania Lee Miller fu tra i primi insieme alle truppe americane alleate, certamente la prima fotografa donna ad entrare nei campi di concentramento evacuati di Dachau e Buchenwald nel 1945. Tra i primi si trova di fronte alle pile di cadaveri, all’odore nauseabondo e l’orrore dei forni crematori di Dachau. Tra gli scatti documentari più spietati e atroci del momento il corpo di una guardia SS trucidato, fluttuante tra le acque di un canale a Dachau; ancora, deportati uccisi nel tentativo di fuggire, visti come un mucchietto d’ossa e d’abiti laceri accanto ai binari di una ferrovia; infine prigionieri liberati scavano tra i rifiuti alla ricerca di cibo. Sono le gambe e i piedi unicamente fotografati nelle divise di alcuni sopravvissuti rilasciati da Buchenwald, senza volto, senza busto o testa, senza individualità alcuna in questo dettaglio di corpi scarni al limite della sopravvivenza. Forni crematori e mucchi d’ossa e polvere, guardie SS in ginocchio catturate in abiti civili nel tentativo di fuggire e ancora la fiorente cittadina tedesca a pochi chilometri dai campi.
“Hitler’s house on fire set by SS troupe” Una delle dimore di Hitler messa a fuoco dalle SS è vista bruciare, ardere, andare in fumo mentre le fiamme divampano al centro dell’immagine lasciata in oscurità sullo sfondo. Sancisce la fine di un incubo di terrore e distruzione che ha devastato l’Europa e il mondo nel corso di un quinquennio, il simbolo della fine di uno sterminio indicibile, infernale, inspiegabile altrimenti. Infine, forse nel suo scatto più celebre la fotografa si auto-immortala nella vasca da bagno di uno degli appartamenti del Fuhrer quasi in un atto di iconoclastia voluta rispetto a un innegabile simbolo di potere implicitamente rovesciato per proclamare la fine del regime.
Miller dopo la fine della guerra ritornerà a vivere negli Stati Uniti insieme al marito Roland Penrose. Fotografa e reporter di fama internazionale, non riuscirà mai a cancellare o meglio a scrollarsi di dosso gli incubi e i mali della guerra. In una degli ultimi scatti della mostra “the hostess takes it easy” Lee appare avvolta da una coperta sul divano di casa sua in California, forse sotto l’effetto dell’ alcool di cui fa uso sempre più frequentemente. Anche lei “ sopravvissuta” della guerra, anche lei liberata come i molti prigionieri dei campi ma mai completamente liquidata dai traumi e la memoria di quegli anni tragici e atroci.
Ancora il volto di Ray irrompe di fronte all’obbiettivo sorpreso in primo piano, spiato contro il suo volere dalla fotografa attenta a coglierne le sfumature, il controluce d’ombra, il risvolto sottile di ciò che il ritratto-icona non svelerebbe. Surrealisti in questo senso sono gli inconsueti scorci fotografici di Lee in quegli anni: scarpe pietrificano in ghiaccio, pietre si rivelano masse animate simili a mani, sabot tracciano impronte lievi di passi al suolo, infine un volto resta intrappolato dentro una campana di vetro trasparente e crudele. In “ritratto allo specchio” una donna è colta di profilo oltre la patina della fotografia convenzionale di moda. Pensosa, avvolta da un lungo cappotto di feltro in una posa statica ed elegante da un lato dello specchio_ immagine inflazionata della moda parigina_ si rivela quasi in un controluce discordante e inquieto si sé dall’ altro lato. Quasi volesse oltrepassare la soglia di realtà e correre lontano oltre lo specchio per ricongiungersi all’altro segreto e recondito ritratto di sé. E’ lì nell’ assenza o nell’ attimo di improvviso smarrimento, nell’infelicità inspiegata e momentanea di un istante, in uno spazio-tempo altro non della vita ma propriamente dell’anima.
Negli anni 30 Lee Miller si trasferisce al Cairo in seguito all’ inaspettato matrimonio con un ricco imprenditore egizio per ritornare a Parigi nel 1937 e ritrovare la vecchi cerchia di amici surrealisti, da Picasso a Ernst, da Cocteau a Mirò. Degli anni in Egitto sono gli scenari di villaggi e rovine nel deserto sub-sahariano all’ ombra delle monumentali piramidi.
“Portrait of space”, Ritratto dello spazio: come percepirlo se non attraverso l’apertura, lo strappo inatteso, la fenditura lieve di una tenda, velo o zanzariera. Un’apertura verso l’al di fuori, l’idea di irrompere e aprire una breccia, oltrepassare i confini, i limiti fisici e di pensiero per andare oltre, verso il deserto, la nuova frontiera di libertà e esplorazione come ci si gettasse in un mare aperto oltre i limiti della stanza. La foto apre a questa dimensione altra dello sguardo e dell’immaginazione immergendoci alla ricerca di tale spazio, personale e di movimento, di libertà e d’azione mentre dischiude un piccolo varco, una breccia semplicemente entro l’orizzonte conosciuto del nostro mondo abituale. Piccola cornice, grande apertura forse attraverso la maglia rotta di una rete , là è andare verso l’aperto in senso surrealista secondo Lee Miller.
“Dalla cima di una grande piramide” un’ombra immensa e spaventosa si espande e si propaga, discende in tutta la sua altezza e rende il villaggio un arido deserto, il suolo assolato e brullo ricoperto della consistenza di una grande ombra , un’oscurità densa e abitata, che dilaga come una minacciosa presenza in mezzo al vuoto circostante.
La fotografa si trova a Londra allo scoppio della guerra rifugiatasi lì con il nuovo amante Roland Penrose in fuga dal precedente matrimonio. Fotoreporter durante la seconda guerra mondiale diviene corrispondente di guerra accreditata dalle forze armate americane perseguendo una fotografia di reportage nuda e spietata agli antipodi della precedente estetica surrealista. Documenta durante quegli anni tragici e atroci i bombardamenti su Londra, l’Europa ricoperta di macerie, il ruolo inedito e coraggioso svolto dalle donne durante la guerra, le operazioni di liberazione da parte delle truppe alleate americane nei giorni dello sbarco a San Malò e in quelli successivi, Lee in prima linea sul fronte insieme ai soldati.
Una visione cupa di Londra intorno al 1940, ombreggiata come l’edificio che si erge al centro della foto fa presagire lo spettro del nazi-fascismo in Europa con l’invasione della Polonia insieme allo scoppio imminente della guerra. Dello stesso anno è la visione molto più simbolica di “Revenge on culture” (vendetta sulla cultura): le statue classiche greco-romane dei templi cadute a pezzi insieme ai libri sono deposte al suolo avvolte da un nastro nero. Dal poema di Eliot l’ammasso di immagini infrante della civiltà occidentale, frammenti di umanità dispersa e pezzi naufragati di cultura lottano per sopravvivere in un mondo oscurato da forze infernali scatenatesi come bufera su questa “terra desolata”, privata d’acqua e di vita perché immersa in una aridità pietrificante.
Una macchina da scrivere esplosa appare con molle, lettere e tasti saltati in aria in seguito alla detonazione di una bomba in “Remington silent”: cavi strappati, pezzi di ferro, lettere esplose, parole rimaste intrappolate nel “linguaggio rotto o fatto a pezzi” dalla guerra. E ancora seguono le rovine di Londra, il tetto crollato della University College, donne reporter o infermiere dai volti completamente occultati e coperti da maschere protettive eppure tanto più reali e presenti ora nella loro umanità che non i ritratti puri e denudati, limpidi e iconici degli anni venti. Lee Miller in prima linea su fronte schierata tra i soldati, indossa abiti militari e una maschera antigas, mostrandosi pronta all’attacco, ferma e determinata, tra mine e esplosioni imminenti all’ingresso della fortezza di san Malò in un volto inedito mai visto prima per la fotografa.
La guerra è finita, Hitler sconfitto, l’Europa è devastata dai bombardamenti e coperta di macerie; l’orrore e la rabbia dei crimini di guerra ancora pervadono, possenti, impossibili da affrontare, redimere o in qualche modo liquidare. In una visione di Parigi la città è coperta di neve e ghiaccio, le ombre di morte e l’oscurità imperanti. Figure spettrali e oscure si allungano sull’ampio sentiero di Chaillot ricoperto di bianca neve mentre la torre Eiffel scompare come una silhouette sbiadita all’orizzonte; sulla superficie di morte il bianco manto dell’ oblio discende invocando la luce della dimenticanza.
In Germania Lee Miller fu tra i primi insieme alle truppe americane alleate, certamente la prima fotografa donna ad entrare nei campi di concentramento evacuati di Dachau e Buchenwald nel 1945. Tra i primi si trova di fronte alle pile di cadaveri, all’odore nauseabondo e l’orrore dei forni crematori di Dachau. Tra gli scatti documentari più spietati e atroci del momento il corpo di una guardia SS trucidato, fluttuante tra le acque di un canale a Dachau; ancora, deportati uccisi nel tentativo di fuggire, visti come un mucchietto d’ossa e d’abiti laceri accanto ai binari di una ferrovia; infine prigionieri liberati scavano tra i rifiuti alla ricerca di cibo. Sono le gambe e i piedi unicamente fotografati nelle divise di alcuni sopravvissuti rilasciati da Buchenwald, senza volto, senza busto o testa, senza individualità alcuna in questo dettaglio di corpi scarni al limite della sopravvivenza. Forni crematori e mucchi d’ossa e polvere, guardie SS in ginocchio catturate in abiti civili nel tentativo di fuggire e ancora la fiorente cittadina tedesca a pochi chilometri dai campi.
“Hitler’s house on fire set by SS troupe” Una delle dimore di Hitler messa a fuoco dalle SS è vista bruciare, ardere, andare in fumo mentre le fiamme divampano al centro dell’immagine lasciata in oscurità sullo sfondo. Sancisce la fine di un incubo di terrore e distruzione che ha devastato l’Europa e il mondo nel corso di un quinquennio, il simbolo della fine di uno sterminio indicibile, infernale, inspiegabile altrimenti. Infine, forse nel suo scatto più celebre la fotografa si auto-immortala nella vasca da bagno di uno degli appartamenti del Fuhrer quasi in un atto di iconoclastia voluta rispetto a un innegabile simbolo di potere implicitamente rovesciato per proclamare la fine del regime.
Miller dopo la fine della guerra ritornerà a vivere negli Stati Uniti insieme al marito Roland Penrose. Fotografa e reporter di fama internazionale, non riuscirà mai a cancellare o meglio a scrollarsi di dosso gli incubi e i mali della guerra. In una degli ultimi scatti della mostra “the hostess takes it easy” Lee appare avvolta da una coperta sul divano di casa sua in California, forse sotto l’effetto dell’ alcool di cui fa uso sempre più frequentemente. Anche lei “ sopravvissuta” della guerra, anche lei liberata come i molti prigionieri dei campi ma mai completamente liquidata dai traumi e la memoria di quegli anni tragici e atroci.
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