"Genesi" per Salgado è viaggio alla ricerca del
mondo delle origini, la natura tale che
ha preso forma e si è manifestata per secoli prima che l’organizzazione delle
società moderne iniziasse ad allontanarci, e renderci estranei ad essa,
inconsapevoli della nostra originaria provenienza. Le immagini di “Genesi” esposte
attualmente ai musei S. Domenico di Forlì scattate da Salgado dal 2003 al 2011
nel corso di 25 viaggi e riproposte presso
le più importanti istituzioni d’arte del mondo da Parigi, a New York, da Milano
a Buenos Aires raccontano perlopiù di paesaggi terrestri e marini, sconfinano
in regioni remote della terra dove la natura domina limpida, incontaminata nel
silenzio della sua magnificenza; attraversano le foreste pluviali e tropicali
dell’Amazzonia, la vastità delle savane o i deserti roventi d’Africa, le
distese di ghiaccio nel grande nord delle zone antartiche più rigide della
terra oppure le isole solitarie del Pacifico. Regioni troppo fredde o troppo
aride perché la vita umana possa insediarsi se non in contingenze estreme o
attraverso le sue forme più resistenti: specie rare di animali, piante e tribù indigene
di popolazioni insediatesi lì da secoli a stretto contatto e in perfetta
sintonia con le leggi prime della natura.
Come scrive Salgado: “nel corso di otto anni in cui ho viaggiato attraverso il
mondo per questo progetto ho imparato a lavorare con altre
specie che quella umana …non come fossi un etnologo o un giornalista ma per
scoprire, mettere in luce, esplorare o dare voce, visibilità e bellezza al
pianeta. Il paesaggio è vivo, immanente all’umano, come i minerali, i vegetali,
gli animali, il pianeta è intrinsecamente connesso in tutte i suoi elementi, vivente
a tutti i livelli. Ho capito quanto rispetto gli dobbiamo, un rispetto
immenso”.
In questo senso la fotografia
per Salgado diviene nelle sue parole “ una lettera d’amore scritta al cosmo ,
verso una natura in cui gli umani devono sentirsi parte integrante ”,e, dunque,
nel corso degli anni un grido di allarme, un monito sempre più chiaro perché il
pianeta non divenga oggetto di
distruzione incondizionata da parte dell’uomo, esposto ai profondi disequilibri del
suo eco-sistema generati ogni volta che si perde quella connessione profonda al
mondo naturale perché si impone una logica di sfruttamento, di profitto
incondizionato, di uso e abuso senza
limiti della straordinaria ricchezza di risorse che esso ci offre.
Salgado
decide nel corso di un viaggio durato una vita di percorrere il mondo a piedi,
a bordo di piccoli aerei, di barche, di canoe e persino d’una mongolfiera per
fotografare “ l’immensa bellezza del continente”, i suoi santuari naturali, le
sue isole.
In
primo luogo si tratta di “incontrare il pianeta, “addentrandosi nelle zone più remote della terra o verso le sue estremità meno raggiungibili; contemplare il
mondo dalle cime più alte agli abissi più profondi- minerali, vegetali e degli esseri animati-,
vedere come gli uomini erano all’inizio della storia e come in essi si
manifesti ancora, secondo Salgado, la parte più istintiva e viscerale dell’umano,
quella che ci ricollega direttamente alla vita, alla sopravvivenza e alle leggi
di natura negate portando all’eccesso l’individualità puramente razionale e logocentrica dell’individuo.
“Ho
visto ciò che eravamo prima di lanciarci nella violenza della città dove il
nostro diritto allo spazio, all’aria, al cielo e alla natura si è perso tra i
muri delle case. Abbiamo eretto barriere che ci separano gli uni dagli altri, dal
mondo naturale. Di colpo non siamo più in grado di vedere di sentire..di
osservare. “Genesi” mi ha fatto prendere coscienza che a forza di allontanarci
dalla natura per via dell’urbanizzazione siamo diventati animali molto
complicati e che, diventando estranei al pianeta, diventiamo estranei a noi
stessi”. Il progetto “Genesi” si
inscrive come un messaggio chiaro inviato all’umanità, una sorta di imperativo,
grido o certezza inequivocabile che
tornare all’essenziale, al cosmo e al rispetto e delle sue leggi, della sua implicita e
perfetta armonia sia il solo modo di garantire all’uomo la libertà, allo stesso
tempo il rispetto dell’essere umano sulla terra contro il processo inverso di
disintegrazione in atto prodotto da forze che implicitamente avversano i cicli naturali
dell’esistenza.
Ancora
le parole di Salgado mirano a dare un senso ultimo e unitario, una visione poetica umanitaria e politica insieme a un progetto estesosi negli anni e sconfinato attraverso i quattro continenti ai poli più estremi
del pianeta: “Genesi mi ha insegnato che tutto è legato e tutto vive senza
farmi dimenticare degli umani, perché anche loro sono parte di questa natura
meravigliosa”.
I-
Il Pianeta Sud, l’antartico e le sue isole
Sono
fluttuanti forme di ghiaccio in movimento, danzanti su una immensa bianchezza d’eternità, poi la
corrosione divorante delle medesime come se una schiuma o mousse soffice e
spumosa fosse stata scavata e ritagliata dagli agenti atmosferici o dalle forze
naturali in azione. Un bianco cielo di ghiaccio si riflette a specchio sulla
superficie brillante e quasi immobile dell’oceano, nero petroleum nell’effetto
del chiaro-oscuro estremo voluto dall’immagine in bianco e nero . Contemplare
l’idea di perfezione attraverso la natura, opera e strumento nelle mani della
divinità, fonte di ispirazione o di trasmutazione estetica per l’artista.
Contemplare semplicemente le forze di creazione in atto in un estremo
incontaminata dell’universo, la penisola antartica.
Dove
esattamente finisce la terra, inizia l’acqua? Le leggi della natura vi agiscono innate, in maniera a noi quasi inconsapevole . Grandi blocchi antartici si staccano dai
massi originari e fluttuano attraverso i mari del sud al largo delle Shetland
australi. Dall’oceano emerge una grandiosa montagna di ghiaccio intagliata, internamente
scavata e svuotata, corrosa dagli agenti del tempo o della materia: arco,
rilievo, apice di iceberg ghiacciato sorge, elevandosi in un turbinio di
flutti, onde e rollii di correnti
nordiche. Dove esattamente è il confine, dove finisce la terra e inizia
l’acqua, dove l’oceano si perde a vista allo sguardo, domina e regna
incondizionato, dove inizia quel luogo originario, della terra alle origini nel
mentre della creazione, Genesi descritta nell’Antico testamento o grande diluvio
biblico mandato come punizione divina su tutta l’umanità? Il vento passa
attraverso le onde disegnando fluttuazioni, orbite cosmiche, sorprendenti
circoli d’energia d’impronta divina sull’acqua.
La
forma è là granitica, immota come una soglia che sorge attraverso l’oceano, un
antro, un luogo di passaggio verso un altrove, quasi fosse il limite ultimo
d’una dimora o castello di ghiaccio all'estremo della terra mentre immoti circoli d’energia
si perpetuano in forma ciclica sulla superficie dell’acqua.
Antartico
II
La
terra è là granulare, granitica, squamosa come la pelle di una serpe, come quando
sassi e limo restano pesantemente depositati al suolo, violentemente portati a riva dalle correnti marine sulla banchina
sottile che separa l’acqua dalla sabbia. La creatura marina, un elefante
d’acqua dei mari antartici, ugualmente appare distesa a riva come fosse essa
stessa un’epidermide rugosa in continuità con l’altra, a squame grigiastre
incise sul suolo. Poi la sabbia invade lo spazio dell’immagine ovvero un
amalgama di sassi e limo e l’acqua, elemento primario, avanza e irrompe: l’oceano-mare
ovunque intorno. La forma immensa dell’animale sul suolo granulare e
sgretolante si staglia in rilievo con un volto dai tratti quasi umani simile a
una creatura preistorica, un fossile o un anfibio d’acqua magnificamente
adagiato sulla terra mentre una marea invadente avanza fino a noi per guazzi,
ondate e sciabordii di moti ondosi. Un equilibrio perfetto e sottile, in sé
stesso indisturbato vige in quello scenario naturale dove tutti gli elementi si
corrispondono di uno stato di purezza, di innocenza primigenia ritrovata al
momento della fotografia. Là, lo sguardo del fotografo pare fondersi con quello del
paesaggio e la costruzione dell’immagine riemerge, nitida di fronte agli occhi
mentre tutti gli elementi si rispondono, magicamente si ricompongono in un
equilibrio perfetto: le linee, le forme, il vento, gli esseri, lo sfondo e la luce che gioca attraverso, incidendo le sue trame in riflessi e ombre su quello.
II.
Santuari
Sulle
isole Galapagos o in Madagascar queste fotografie raccontano di una vegetazione endemica,
originaria dei luoghi minacciata dagli insediamenti urbani invasivi: specie di
animali e piante rare come le orchidee o i lemuri, di dune naturali di sabbia scavate dal mare e letti di fiumi prosciugati, di immense tartarughe d’acqua o correnti di lava in
eruzione attraverso i vulcani attivi. Superfici calcaree e taglienti come vetro in
frantumi appaiono ricoperte da conchiglie e stalagmiti di accumuli minerali,
foreste pluviali e colonne di fumo si stagliano verso l’alto attraverso l’aria
disegnandosi in linee grigiastre all’orizzonte dagli insediamenti degli indigeni
autoctoni.
Fotografata
un primissimo piano nel corso di un reportage alle Galapagos Salgado racconta a proposito dell’iguana al
momento dello scatto: “ guardando una delle sue zampe anteriori improvvisamente
ho visto la mano d’un guerriero del medioevo. Le sue squame mi hanno fatto
pensare a una giubba di maglia di ferro sotto la quale ho visto dita simili
alle mie". La zampa espansa e enorme dell’animale in primo piano ci fa pensare
a una mano del tutto umana, istrionica, ricoperta di alluminio quasi o di
acciaio rigido e grigio come indossasse appunto un guanto o una maglia
metallica per proteggersi dai predatori o dagli agenti atmosferici esterni.
Artigliata fende la terra, al fondo della medesima affonda l’unghia nel vivo
della carne o del suolo. Artigliata appare simile, tuttavia, a una mano umana
vista come un scintillante magnete di metallo in una postura d’allerta o di
vigile posizionamento. E’ insieme la corazza dell’animale che ci portiamo
addosso e la parte istintiva e viscerale presente al più vivo dell’umano.
Come
sottolinea il fotografo: “con Genesi ho voluto raccontare la dignità e la
bellezza della vita nelle sue diverse forme e mostrare come abbiamo tutti la
stessa origine.” Il termine non assume
infatti per lui una connotazione prettamente religiosa ma indica “
quell’ armonia delle origini che ha permesso la diversificazione della specie.
Ovvero, il prodigio di cui facciamo tutti parte”.
Ritratti
di indigeni
Un
volto-maschera appare scavato dal tempo e dalla ardue condizioni di vita nella
foresta amazzonica per questo primo piano scattato tra le popolazioni indigene
con cui Salgado entra in contatto nel corso di uno dei sui innumerevoli viaggi nelle
isole indonesiane della Nuova Guinea.
Volto
sciamanico, sguardo scintillante di ardore, di vita contro la secchezza scavata dei suoi tratti, incisi
sulla pelle come sull’aridità d’un suolo prosciugato di vita, dissecato da una
calura intensa o da una siccità esperita nel tempo al massimo grado. Pigmenti
di colore bianco simile a una vernice naturale ne coprono il viso ad eccezione degli occhi, intensamente scintillanti
e diamantati sul fondale opaco. L’uomo fissa il proprio sguardo dritto di
fronte all’obbiettivo in primissimo piano, vigile, attento, forse incuriosito
dalla macchina, con questa sua intelligenza manifesta del corpo in ascolto e in
affinità intima con ogni minima vibrazione o movimento che gli accade intorno,
lui detentore inconsapevole di tale conoscenza sottile delle leggi e dei
segreti del mondo naturale che lo
circonda.
Nella
fotografia successiva due indigeni della Nuova Guinea sono sorpresi o ripresi dalla macchina durante una cerimonia rituale di danze e canti ancestrali denominata “sing-sing” apparendo come dei veri
e propri performer avant- lettera intenti a suonare i loro flauti rudimentali modellati
nel legno della foresta. Cappelli piumati, volti ricoperti di maschere di
bianca vernice, moltitudine di colori cui allude la fotografia, i corpi appaiono decorati dai loro propri oggetti e collane
rituali scintillanti in metallo pesante, i capelli acconciati in una sorta di parrucca naturale decorata di piume, lo sguardo centrato all'obbiettivo in una presenza scenica ineluttabile; loro, essenzialmente intenti a intonare o
accordare gli strumenti nel corso della cerimonia . Ornamento, essenza e
presenza totale della loro aurea luminosa confluiscono insieme in
un’immagine in sé stessa perfetta, compiuta senza necessitare d’ altro
commento o traduzione.
Isola
vulcanica sospesa come una grande nuvola artificiale,
un’eruzione
dal mare o dal sottosuolo, una visione, un sogno, un’immagine, irreale
fluttuante a tratti nella memoria si materializza, si rende manifesta, riappare
lì d’un tratto come in un sogno ad occhi aperti. Grandi, immensi alberi
secolari ricoprono il suolo dell’isola, uno in particolare al centro con le sue
radici profonde che si gettano e diramano
dentro la terra fino a raggiungere le profondità del sottosuolo per ritornare
all’oceano e ricongiungersi alla liquidità prima dell’origine. Le chiome ramificano
verso l’alto in una radiazione luminosa e clorofilliana di presenza, della loro
primaria verde-smeraldo natura.
Una
zolla di terra resta fluttuante e sospesa in mezzo all’oceano, al largo della
Baia di Moramba; sorge quasi come un Eden terrestre, una piccolo pezzetto di suolo
o isola proliferante di vita in mezzo alla vastità calma e piatta dell’oceano
al largo del Mozambico.Come una nuvola
di vita si innalza e prende corpo
_
sgretolante di secolari radici e ricoperta di una verde proliferazione di piante-
come
un’impronta a sé, l’ultimo baluardo di salvezza tra la vastità immobile
dell’acqua e l’involucro pesante e grigio del cielo, incendiario, carico sopra la terra di tempesta.
III Africa
Documenta
un’Africa eterna abitata da tribù ancestrali e vista attraverso paesaggi
maestosi e una natura selvaggia. Viaggia attraverso il deserto del Sahara nei
tredici stati che attraversa considerato porta d’accesso all’Africa. Dai suoi
primi viaggi in Ruanda, Burundi, Zaire e Kenya Salgado ritrova in Africa quella
vastità selvaggia che egli considera “ l’altra metà del suo continente”: la
stessa vegetazione, gli stessi minerali, le stesse origini per quegli schiavi
che dalle coste africane venivano condotti dai portoghesi in America latina,
infine una simile maniera di vivere, parlare, alimentarsi e mettersi in
relazione nella comunità. E’ lì, nel corso di trent’anni di viaggi e innumerevoli
progetti fotografici che Salgado si trova faccia a faccia con paesaggi di una
ineguagliabile bellezza ma anche di fronte ad emergenze umanitarie estreme documentate dai reportage come la siccità
in Sudan, gli esodi di massa dei
profughi dal Mali, il Ciad o l’Etiopia, infine le atrocità perpetuate in paesi
come il Ruanda nel corso della guerra civile. E’ lì in quel continente stigmatizzato
e insieme sconfinato che Salgado scopre la propria voglia di mettersi in gioco, la passione assoluta e ineguagliabile per la fotografia fino a farne la professione di tutta una vita. I numerosi viaggi portano coerenza al suo
lavoro,divengono a poco a poco strumento per vedere, comprendere, seguire i
cambiamenti di uno stato di luoghi nel tempo e nello spazio e mostrarli attraverso le immagini, infine un modo di convertire il
piacere dell’istante in progetti umanitari di lunga durata. La sua fotografia si esplica nello specifico come una forma di scrittura appassionante
attraverso la luce ma, anche, nelle sue parole, come "un linguaggio molto potente, universale come solo può esserlo quello dell’immagine perchè non necessita d’altra traduzione e si situa
innegabilmente nell’attualità del presente".
Zambia
D’ inverno nello Zambia le notti sono fredde, all’alba l’acqua dei laghi ancora tiepida per il sole della giornata precedente evapora e condensa in affascinanti banchi di nebbia che lievi versano sopra il paesaggio avvolgendolo completamente della loro tenue effusione sullo sfondo desertico e spoglio della savana. Una vastità immensa, un mare liquido di foschia, traslucido e riflettente simile a uno stagno di riflessi argentei ne emerge. Sole poche chiome in alto restano ancora visibili, forse il profilo di altorilievi o arbusti appena riconoscibili a distanza, mentre tutta la visione in primo piano appare completamente sommersa e avviluppata da questo deserto apparente d’acqua, di fumo o di lava argentea, liquida allo sguardo. Una sola strada sottile è tracciata là al centro in un zigzagare di bianco che procede verso l’orizzonte e lo incide, lo taglia, lo appropria in mezzo a quel manto lucido e scintillante d’acqua e melma apparente.
Ancora
dall’ Africa del sud, vicino al deserto del Kalahari sono i ritratti di volti ripresi
in mezzo alle tribù ancestrali dei Boscimani che vivono sul territorio.
Nella
loro più importante danza rituale in Namibia le donne cantano e battono le mani
in circolo mentre gli uomini danzano in un cerchio più ampio intorno a loro su uno spiazzo circolare al centro del
villaggio; il ritmo frenetico della musica che si instaura sullo sfondo degli
arbusti e dei cespugli nella savana accompagna lo sciamano attraverso il suo viaggio rituale
verso l’aldilà. L’immagine coglie il
senso di una danza sacra che riconnette il singolo alla comunità, e
disegna un scenario simbolico, di passaggio attraverso il quale il mondo
materiale entra in contatto con quello spirituale
o l’uomo si riconnette alle forze sottili della natura che muovono il cosmo.
Si
dice che le donne restavano sole nel villaggio, assumendo tutto il potere su di loro quando gli uomini partivano per lunghe trasumananze alla ricerca di acqua
e nuovi pascoli con tutto il loro bestiame.
Questa
donna appare seduta sulla terra in posa
meditativa, scorta di profilo obliquamente alla macchina eppure a distanza
ravvicinata d’essa, forse intenta a una sorta di preghiera o invocazione
silenziosa ad occhi chiusi per il ritorno degli uomini. Salgado la sorprende in
tale sguardo estatico, nel silenzio
della sua postura, nella solitudine essenziale della sua figura volta verso l’interno, ripiegata su sé stessa in
atteggiamento di silenziosa contemplazione o, semplicemente di attesa, nella
sospensione del momento presente. Ne emerge la dignità solitaria e l’intrinseca bellezza di un
ritratto quasi regale sottratto al fluire consueto del tempo nel villaggio. I capelli sono intrecciati e accuratamente
acconciati con ciocche in rilievo secondo lo stile locale, bracciali argentei scintillano
maestosamente ai suoi polsi mentre il corpo resta per metà scoperto, denudato
secondo l’usanza indigena.
Genesis,
the origin of creation
Una mandria di bufali è vista dall’alto, riunirsi in un grande branco al centro di una terrapieno nel parco nazionale dello Zambia. La foto scattata silenziosamente a distanza da una mongolfiera per non interferire con i movimenti degli animali appare immersa in un effetto pittorico quasi astratto. Vediamo questo piano infinito attraversato da onde e fluttuazioni di branchi, pensiamo a spostamenti di animali in massa a distanza, a orme di passi viste dall’alto, all'immagine d’uno sciame, d’uno scorrimento di acque, d’un fiume in espansione e straripamento verso un immaginario orizzonte oceanico al fondo della foto, quasi a una grande superficie mossa e movente tinteggiata nelle tonalità argentee del grigio, del bianco e del nero fino all’orizzonte. Al di sopra un cielo carico, trafitto da una luce irradiante per punti di intensità attraversa le nubi al tramonto. E’ a partire da quella luce d’origine quasi divina, scendendo dall’alto come una rivelazione o un’apertura dall’infinito verso la terra più in basso che Salgado crea la potenza dell’immagine e, insieme, coglie l’idea di genesi come di un ritorno all’origine della creazione. Nel testo biblico della Torah , Javé, il Dio dell’Antico Testamento creò l’universo, la terra in sei giorni e il settimo si fermò a contemplare l’esito della propria creazione. E' anche ciò di cui parla “Genesi “ di Salgado nella foto: il grande mistero della creazione del mondo, le forze della natura al lavoro, Dio al di sopra di esse, l’inizio e la fine di tutto quello che esiste come leggiamo all’inizio della Genesi:“Io sono colui che io sono. Questo è il mio nome per sempre, questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.”
“L’io sono”, il primo nome dato a Dio nella
Torah qui è figurato, colto come questa luce che scende dall’alto e irradia
simile a una rivelazione divina al fondo di un cielo coperto e oscurante al tramonto, mentre disegna il suolo, la superficie del mondo, con linee di vita che proseguono verso il loro proprio infinito e iscrivono parole su un Libro Sacro, quello dell’universo: il tessuto significante della terra.
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