lunedì 2 agosto 2010

Valerie Jouve : corpo, fotografia, utopia ( fotografie realizzate nella banda di Gaza tra 2008 e il 2009 esposte al centro Pompidou, Parigi )









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Valerie Jouve: “Lo spazio tra i corpi ma anche lo spazio prodotto dai corpi è una grammatica che articola il senso.” Non è solo un involucro delimitato, è anche la memoria di tutta una storia, un’umanità che produce significazione al di fuori della nostra volontà.

“Realtà terrificante. Parlo della struttura di realtà che costringe fisicamente dei comportamenti e ne induce altri. Per me, solo i personaggi delle mie fotografie difendono la loro libertà, il loro potere.”
"Vogliono impedire questa corsa verso l’unico, verso l’omologazione a un pensiero che tutti gli uomini dovrebbero sottoscrivere. Una sola verità che bisognerebbe asservire o, allora, è il conflitto, la guerra. Come se, in nome delle grandi ideologie totalitarie, si dovessero svuotare gli esseri della loro differenza, della loro individualità . Da parte mia, preferisco restare in movimento, affermare una verità oggi è diventato molto pericoloso. Tuttavia, grido per arrestare il massacro dai due lati, l’insopportabile svilimento, subordinazione, asservimento, formattazione, lavaggio, smantellamento, spogliazione delle individualità e delle loro anime."
“Questi corpi morti della vanità degli uomini, del sopruso dello stato. Parlano anche di politica. Devono ritrovare una propria voce, la loro voce.”

“L’immagine del margine, del singolare, sono elementi d’apertura della nostra società. Saranno dunque figure, personaggi che al di là d’ogni appartenenza razziale o sociale esprimeranno il bisogno d’affermare questa libertà d’essere altri."


Al di là del prendere atto della realtà, fotografare visi e corpi come luoghi utopici a partire dai quali proiettare una visione altra del presente: luoghi tra il politico e il poetico che nutrono l'utopia, l'idealità d'una nuova generazione per il popolo palestinese.
Sono volti di profilo presi a distanza ravvicinata o in primissimo piano, visti obliquamente rispetto all’obbiettivo.
Occhi aperti, chiusi. Ripiegamento sul sé, perplessità, sospensione, interrogazione, dubbio o angoscia.
Volti nettamente stagliati, chiarificati oppure figure colte di schiena, lo sguardo opposto all'obbiettivo, proiettato in una direzione che sfugge al nostro sguardo, quasi mai frontalmente, come fissando un punto altrove, o il vuoto semplicemente.

Il volto: un paesaggio umano, una domanda aperta, mai neutrale, a tratti perturbante, attraversata da infinite sfaccettature, sfumature,
mutevole come gli umori, gli ardori, i dolori che lo attraversano;
qualcosa di complesso, multiplo, irriducibile a un semplice stereotipo,
fragile della fragilità d'una maschera o figura che si porta addosso sostituendone l'una all'altra,
esposto poi senza riserve alla corteccia rugosa del mondo,
con le sue intemperie, graffi, screpolature.


Un muro di cinta esterno separa il personaggio in primo piano, in una sorta di fotomontaggio, da quello che appare come lo sfondo d’una città araba alle spalle. La figura umana marginale perché esterna, estranea al paesaggio è inserita in primo piano come se si trattasse di un fotomontaggio, in uno spazio fisico, esistenziale e sociale alla quale è connessa e, al tempo stesso, separata. 

Muri, alberi, barriere o linee orizzontali rafforzano la sensazione di scissione tra l'individuo e una realtà dandosi come imposizione violenta, opaca e indeterminata contro la quale il soggetto sembra inevitabilmente intaccarsi scontrandosi ad essa.
Gli occhi chiusi, il volto si da obliquamente alla camera. Giovane donna nitida in primo piano, vestita con jeans e t-shirt occidentali, come cercasse la luce, si protendesse in un anelito di vita; un muro neutrale, azzurrino-stinto alle spalle.

Ancora un muro di separazione e, sullo sfondo, lo squarcio indeterminato delle fortificazioni esterne della città.

Una giovane palestinese vestita di una tunica nera con la testa scoperta, il volto senza velo e i capelli lunghi, bruni lucenti al sole proietta una visione utopica, libertaria della condizione femminile investita d'una nuova idealità per la giovane generazione palestinese. Un muro di pietra si erge alle sue spalle ma il paesaggio roccioso, arido sullo sfondo appare in connessione alla figura in primo piano.


 Nello squallore d'un campo profughi disertato dalla guerra la figuretta d’un bambino si staglia a lato in un improbabile parco giochi disseminato di immondizie e rifiuti.







Michel Foucault , Le corps utopique, Lignes, Nouvelles Editions, 2009.


“Luogo senza ricorso al quale sono condannato”, piccolo frammento di infinito con il quale, letteralmente, “ faccio corpo”, assumo una consistenza concreta, un'apparenza manifesta, evidente, inconfutabile nello spazio.
Eppure, secondo Foucault, il corpo é anche ciò che non si lascia facilmente ridurre , portando in sé le proprie risorse: “luoghi senza luoghi, più ostinati ancora che l'anima, le tombe, gli incantesimi dei maghi. Possiede le sue cave, le sue soffitte, i suoi soggiorni oscuri, le sue spiagge luminose”. La testa, per esempio, strana caverna aperta sul mondo attraverso due fessure dove le cose arrivano, entrano, vengono ad abitare rimanendo tuttavia esterne perché proiettate come immagini percepite all'altro lato della sfera ottica. Per raggiungerle è come se dovessi rivoltarle, appropriarle, riproiettarle a mia volta.

“Corpo incomprensibile, penetrabile e opaco, aperto e chiuso; luogo utopico per eccellenza”. (Foucault)
Cio' che è assolutamente visibile in un senso, come l'essere guardati, osservati dalla testa ai piedi, spiati, sorpresi, sorvegliati alle spalle quando meno ce lo si attende, espropriati dallo sguardo d'altri eppure anche, “captato da una specie di invisibilità dalla quale mai puo' liberarsi”.
E' visione fantomatica che appare al miraggio deformante degli specchi o ancora,
figura frammentaria, parziale, percepita a tratti o per parti distinte,
viso, braccia, labbra, arti, senza spessore ne figura perdendo la propria linea di contorno, sfumata, cancellabile nei suoi tratti esterni.

Visibile e invisibile, trasparente e opaco, respira, vive, agisce, “si lascia attraversare senza sosta dalle mie intenzioni”, dalle mie pulsazioni.
Anche, é materia pesante, investita di una forza di gravità che lo tiene inchiodato al suolo, nella pesantezza quello che lo fa sprofondare nell'abisso della propria finitudine: la lentezza del sonno,
la narcosi dell'abitudine,della noia o dell'abbandono;
l'astenia della non-esistenza,
la quasi-immobilità che precede la morte,
la parte impropria dell'esistenza,
l'architettura intaccata della carne, la suppurazione aperta della malattia.

“Forse, bisognerebbe ancora discendere sotto i vestiti, forse bisognerebbe raggiungere la carne stessa e allora si vedrebbe che, in alcuni casi, il corpo volge contro di sé il suo potere utopico e fa entrare lo spazio del religioso e del sacro__ tutto lo spazio dell'altro-mondo e del contro-mondo__ all'interno di uno spazio che gli è proprio. Allora, nella sua materialità, nella sua carne diventerebbe anche il prodotto dei propri fantasmi. Il corpo che danza è giustamente un corpo dilatato secondo uno spazio che gli è interno e esterno insieme. “

Il corpo umano , secondo Foucault, è l’attore principale di tutte le utopie, “punto zero del mondo dove i cammini e gli spazi vengono a incrociarsi,
piccolo nodo utopico a partire dal quale sogno, parlo, immagino,
percepisco le cose intorno a me e le nego per il potere infinito delle utopie che invento.”


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