lunedì 16 marzo 2009


La questione del centro: centro del corpo, del movimento, dello spazio.
E’ da questo fulcro che irradia l’impulsione vitale, l’energia trasferita da un punto all’altro del corpo spostando il suo centro mobile attraverso il peso.
Pensare, pesare, mettere peso nel rapporto all’altro, creare una sovrapposizione di superfici, di lembi o di pelli che si sfiorano,
diventare sempre più parte,
temere di abbandonarsi,
resistere, sfuggire, restare_ sentire il vuoto che vi assale.

Presa di coscienza: conoscere il proprio corpo, guardarlo con l’ “occhio interno alla percezione” dentro la motion. Strana presa di coscienza che implica non un pensiero_ quello che inibisce, arresta o blocca l’azione _ ma una coscienza acuta dentro ogni singolo spostamento di peso, di energia:
un sapere esattamente dove sono, il perché di ogni singolo gesto in un ascolto totale che é solo dentro i miei sensi e lascia la mente libera, vuota, anzi, quasi, in uno stato di coscienza alterata dove le emozioni invadenti o eccessive sarebbero respinte indietro, messe tra parentesi.
Il pensiero, qui, é tutt’uno con il mio gesto, la mia energia, il mio peso.

Picasso dice: “non cerco trovo” ; trovi delle cose, trovi sempre e comunque, lasciando andare la tua sensibilità, in un costante, interminabile divenire, scoprire, aggiungere qualcosa di più,
più vicino, più dentro te stesso; sempre e comunque attraverso l’altro.


(Riprendendo una frase di Bejart)
Ho scoperto la danza camminando per strada, guardando gatti stirarsi al sole,
volendo toccare, sorprendere il mondo con le mie mani,
guardando mani impastare acqua e farina...
.... ascoltando ogni singolo ritmo che si muove, si agita, sussurra, vibra in natura,
sentendo il rumore del mare, dando libero corso alle mie sensazioni,
camminando di notte per strada, ascoltando il battito interno, la voce segreta, il silenzio che s’apre in ogni singola forma di vita,
viaggiando a occhi chiusi su un treno, ascoltando il rumore di ruote stridenti contro le rotaie, lottando contro le mie paure, incontrollate,contro la violenza di un’immagine nello specchio,
rotolandomi a terra, facendomi male, ritornando alla terra fino a ritrovare il contatto primo con il suolo;
ritornando alla terra, cercando quel contatto primo, il ritmo primordiale del corpo, la forza del mio peso.

Cerchi, cadute, improvvisazioni: farsi male, farsi venire lividi alle ginocchia, sulle gambe, fino a perdere l’equilibrio che mai si possiede; gettarsi a terra, volere scappare ma essere li’ costretti a restare con la violenza di forze estranee che vi esplodono in corpo;
Non sapere nulla di, non sapere controllare il peso, l’equilibrio, le varie parti implicate nel movimento.
Caparbietà, incoscienza, e ancora, distrazione, rifiuto, insofferenza della serietà implicata di un’esistenza puramente intellettuale che esclude la totale esperienza interiore. L’ostinazione, la caparbia di un voler fare, prendere parte, sentire, percorrere direttamente con i propri sensi.

Ora sono leggero, ora volo, ora mi devo dentro di me, ora un dio danza in me; non potrei credere a un dio che non saprebbe danzare”.(Nietzsche)


Cercare un proprio linguaggio sarebbe liberare una creatività in sé: liberare un corpo, un’espressione, un modo proprio di rendersi visibile, d’essere, di far passare frammenti di senso. Non imitare, copiare, rifare ma cercare dentro sé stessi questa cosa densa, stratificata e ancora informe che vi abita, imparando a modellarla, a dargli forma, una forma che la renda visibile nel suo potenziale inesplorato all’esterno. Riconoscerla, cercarla, inseguirla, lottarci contro senza sapere dargli un nome.

Carolyn Carlson[1]: “Al di là di ogni cosa il mistero; tutte queste cose date e prese da un’invisibile desiderio”.

Divenire nulla di fronte al mondo,
nel vuoto di sé un’ universo;
Questa cosa che si libera, prende forma, corre fuori d’un tratto:
lì dove tutto diventa liquido, aereo, opaco, acquoso, acquatico;
energia attraversata allo stato puro, forza magnetica di quello che è nel divenire contro gli spigoli, gli angoli, la durezza delle inquadrature geometriche,
le resistenze, le esitazioni, le inibizioni,
i si-no-ma-forse, le storture, le rotture, le ritenzioni.

“Noi, tutti sospesi senza definizione”[2]
Sei quello che senti e quello che resta silenzioso, quello che vedi e l’altro che resta celato, indeterminato eppure presente dentro di te indubitabilmente .

Respiro di vita: posso ricordare attraverso il mio respiro,
tutta la memoria del mondo incisa dentro un singolo respiro, un universo in sé.
Ritrovo i ritmi primordiali delle cose, rintraccio attraverso questo mio corpo i ritmi che esistono intorno a me, i fenomeni, gli atti, i momenti singolari che accadono e che altrimenti resterebbero silenziosi. Esiste questa sorta di facoltà segreta, facoltà che altrimenti resterebbe ignota, di potere, in rare occasioni, entrare in connessione totale con il vivente nel suo battito segreto, di poterne sentire più di quello che sia lecito sentirne, anche al rischio che tale passaggio comporterebbe. Usare questo sapere come un ascolto che ci apra un altro livello di comprensione della realtà. Ci sono persone o cose, eventi o individui che aprono la strada a queste connessioni segrete; momenti, atti, eventi impercettibili vibrano dall’uno all’altro, non in maniera palese, ma sottile, invisibile. Un niente apparentemente lo sappiamo: passaggi di energie, fluidi vitali.

Posso ricordare attraverso il mio corpo: ho questa facoltà di “rémémoration” quando i miei sensi sono totalmente presenti, risvegliati, assorti, e nel pieno del loro potenziale espressivo. Quando non ho impedimenti, barriere, inibizioni perché è proprio in ragione dell’insofferenza, del tormento sottile, dell’insistenza corrosiva, del fastidio del sé che allora devo trovare il modo di rompere, lacerare, aprire spiragli per poter respirare. Sbattere contro un muro fino a farsi sanguinare, inciampare su sé stessi instancabilmente.
Vedere l’immagine infrangersi contro il contorno di una fragile identità, sbattere a terra, continuare ad avvolgersi su se stessi, crollare a terra e poi rialzarsi, continuare cadere;
la colonna non regge, nulla regge, il ventre, le viscere, le vene, le ossa, tutto si scioglie, cade, si lava via, si lascia scivolare. Il vuoto vi afferra, vi divora, non vedete più i confini, siete sparso, pericoloso, continuate a gridare invano.

Lasciar venire dal fondo; vedo un corpo vuoto, leggero, libero, aereo. Voglio lasciarlo fare, tramite, medium, veicolo anche di quello che passa attraverso di me. Voglio che sia cosi’, in uno stato di presenza totale, unica, singolare, tanto che nessun’altro potrebbe ripeterlo allo stesso modo, ritrovarlo identico come se li’ fosse inscritto dentro la sua pelle, dentro la sua carne, come vibrasse del liquido che scorre, di ogni singola goccia delle sue vene,
dei suoi gridi trattenuti, dei suoi sussulti estenuati, appena sussurrati, dei suoi “vuoti a essere”, delle sue fughe, dei suoi silenzi,
delle sospensioni, delle sue azioni, esitazioni, regressioni,
come fosse giustamente abitato, posseduto, fino in fondo attraversato da questa potenza di vita pulsante dentro ognuno dei suoi gesti, come fosse rapito da questa cosa che altri non vedono: un tenue ricamo di seta, una tessitura d’aria, la trama invisibile d’un sogno.

Poesia: forza che contiene in sé il ritmo, energia vitale che trascina e coinvolge l’uomo nella sua interezza. E’ il movimento del pensiero e insieme quello del desiderio, non intesa come parola, ne semplicemente nella sfera della ragione. E’ sangue e vita, corpo e pensiero. Cerco una scrittura che crei immagini, che trasmetta delle sensazioni, e dia voce in primo luogo, al respiro, prima di ogni significazione al soffio dal corpo. Dunque già vivente animata e totale come in teatro.


[1] Carolyn Carlson, Solo, Alternatif, 2003
[2] Ibid., Carlson

Nessun commento:

Posta un commento