“Tra
queste due verità, tra queste due spaventose forze del fronte tu cammini
lasciandoti attraversare dal paradosso di tale contrasto, le voci intime e
affezionate da un lato e il ruggito indistinto della spaventosa battaglia
dall’altro.” (Lettere dal Fronte, I guerra mondiale)
Il tema
della guerra dal mito delle sue più antiche narrazioni eroiche al presente di
lacerazioni e conflitti che sempre e inevitabilmente continuano a colpire il
mondo d’oggi è fulcro delle opere esposte al Mar di Ravenna nella mostra : “War
is over”. Artisti di epoche e culture tanto distanti nel tempo e nello spazio
quanto due millenni di storia sono giustapposti sui tre piani del museo intorno
ai quali si aprono molteplici questioni e riflessioni. Come titola la mostra
con un grande punto interrogativo: la
guerra è davvero finita o non sarà mai possibile estinguerla veramente, nella
sua presenza inalienabile, nel suo ripresentarsi ciclicamente nel corso della
storia e al centro stesso della natura umana?
Nel mondo
d’oggi guardandosi intorno la guerra è ovunque frammista alla storia contemporanea, dagli scontri
sanguinosi nell’eterno conflitto arabo-israelita, dalla guerra ai terrorismi
degli Stati Uniti contro Afghanistan e Iraq, alle guerre nei paesi
medio-orientali contro le organizzazioni estremiste islamiche, dalle guerre
civili nei paesi africani a quelle per il controllo del petrolio o di altre
risorse energetiche in medio-oriente. C’è
da chiedersi se, come affermava il noto critico d’arte Croce, “ la civiltà
umana è veramente la forma a cui tende e in cui si esalta l’universo con la
natura da piedistallo”, oppure si tratta solo di “un’illusione consolante”
contro la presenza indistruttibile, inevitabile e intrinseca dell’istinto umano
portato all’animalità, alla distruzione del dare o perpetuare la morte tra i
propri simili.
La pace non
è data ma conquistata, acquisita attraverso la difficile sospensione del
conflitto, la logica del dialogo, della trattativa o del “trattato” di pace; la
guerra al contrario appare quasi come quell’aspetto inalienabile insito della
visceralità dell’animale-uomo, nel suo bisogno di dominio o di opposizione obbligata
al dominio dell’altro, nel suo istinto di prevaricazione e espansione. Il
conflitto è forse il concetto che contiene potenzialmente in sé tutte le altre
dimensioni della guerra, da quella privata e intimista nella relazione a due allo
sfociare politicamente, a livello collettivo nello scontro aperto e violento. La guerra mette bruscamente a nudo,
“l’umanità di fronte a sé stessa spogliandola di quei doni di intelletto e
ragione di cui tanto va fiera.”[1]
Mostra il sacrificio della carne e del sangue e il suo ripetersi
inevitabilmente nel corso della storia, dunque, in tale istinto distruttivo si
rivela nel suo intrinseco scacco alla ragione dell’uomo “sapiens”, intelligente
e razionale in controllo di sé stesso e delle proprie azioni o reazioni.
L’arte come
si relaziona alla guerra? In “spazi di libertà”, l’ultima sezione della mostra la
creazione artistica interpreta la libertà di pensiero e d’azione del singolo,
libertà d’essere e di esprimersi come antidoto alla violenza collettiva e
regimentata di ogni guerra. Ancora, denuncia in maniera diretta o trasversale documenta
attraverso la fotografia e il reportage, sempre in ogni caso, si confronta e si
interroga dialetticamente attraverso l’opera producendo infine nella
performance atti trasgressivi e violenti capaci di scuotere le coscienze e di gridare
una propria verità con autenticità e crudezza. L’arte apre tali spazi di libertà,
dal singolo o dal gruppo, una possibile via d’uscita espressiva e creativa al
conflitto attraverso la creazione di immagine come primo antidoto
all’inevitabile, feroce portata di distruttività insita in tutte le guerre.
Teatri
di guerra
“Just
off the mark”,
appena fuori dal bersaglio sembra dirci Lawrence Weiner mettendoci in guardia
all’inizio della mostra attraverso la sua installazione del 2012. Siamo appena
fuori dal bersaglio, a un piccolo passo, a un istante solo dall’essere colpiti,
attaccati, annientati e dissolti come insignificanti bersagli da una guerra
invisibile e crudele, da uno stato apparente di minaccia o di instabilità
insita nel nostro mondo a diversi livelli, là a un micro-passo dall’essere
disintegrati contro quel muro di silenzio che è anche l’impossibilità di dire o
comprendere profondamente la realtà che ci circonda, di trovarvi lì una
risposta o una progettualità condivisa. E’ questa la visione del mondo che vogliamo
avere per noi stessi, il tipo di luogo dove vogliamo vivere o immaginare di
vivere per noi e quelli a noi vicini? Ammonizione, annuncio o segno scritto a
grandi caratteri sul muro, lasciandoci lì una domanda aperta, incisa con un
segno ellittico, unico, tracciato a inchiostro nero sul bianco del fondo nella stretta
uncinata del suo atto demistificatore.
Alfredo
Jaar, (Milano, 1946, Lucio Fontana visita il suo studio al ritorno
dall’Argentina)
Qual è lo scenario che compare alla
fine di una guerra, di ogni guerra che cosa resta quando tutto l’odio, la
vendetta e la rabbia, la dedizione cieca e insensata a un’ideologia, la
crudeltà atroce e fine a sé stessa obbedendo alla medesima si è consumata, per
esempio alla fine della seconda guerra mondiale in Europa?
Qual è lo scenario che si presenta_
la fotografia espansa e ingigantita di Jaar ci mette di fronte qui all’interrogativo _
quando tutto è finito, le bombe lanciate, i palazzi rasi al suolo, le città
incendiate o distrutte, le linee ferroviarie fatte saltare in aria, al ritorno
dopo una guerra, di qualsiasi si tratti, dopo il quinquennio di storia che ha devastato l’Europa , la sua storia, cultura
e civiltà precedenti. Così la immagina e la ridisegna Alfredo Jaar nelle
fotografie in cui Fontana ritorna esule in una Milano distrutta all’indomani
della II guerra mondiale, scoprendovi case diroccate alte ormai quanto lui,
pile di macerie fino a metterne a nudo le fondamenta, sassi sui quali
incespicare per raggiungere l’ingresso del vecchio studio tra le palazzine retrostanti
ancora intatte. Immensa, ingigantita, dilatata e esposta l’immagine dell’uomo che
avanza solo tra le macerie ovunque intorno a lui, forse di quello che era al
cuore del suo lavoro, del suo essere là precedentemente, sulle tracce di un mondo scomparso, seppellito di rovine, un
tempo donato al lavoro d’arte.
Estratti
filmici sul tema della guerra
“Chi
fu il primo che inventò le spaventose armi? Da quel momento aprì la via più
breve alla crudele morte. Tuttavia, siamo noi che usiamo malamente quello che
egli ci diede per difenderci dalle feroci belve”. (Catullo)
Le guerre
le si sono sempre fatte, suggerisce il montaggio video , dalle guerre storiche
combattute con tanto di cavalleria e schieramenti sui campi prestabiliti per la
battaglia, con stendardi e trombe che annunciavano l’inizio delle medesime alle
guerre di posizionamento iniziate nel XX secolo nelle trincee: carneficina di uomini e mezzi nelle
putride fosse scavate per avanzare e difendersi durante il I conflitto mondiale.
Si arriva alle immagini indicibili dello sterminio di massa perpetuato in epoca
nazista. Sorprendente pensare alla distanza che corre tra un primitivo atto
catartico di uccisione visto in una scena di caccia _l’uccisione come atto umano
di dominio e tutela contro lo sbranamento da parte dell’animale_ alle moderne
guerre fatte di contraeree e obbiettivi nel mirino di computer assolutamente
sofisticati per colpire precisi target militari, disintegrare meri bersagli di
guerra senza tener conto delle conseguenze sui civili
che vi andrebbero di mezzo al primo errore di un obbiettivo. Il cinema ha
immaginato e dato corpo a guerre stellari per conquistare galassie sconosciute
e dominare da parte dell’uomo l’immensità sconosciuta dell’universo
estendendone i confini del possibile nell’immaginario collettivo di Guerre
Stellari negli anni 50 in America. Eppure nel corso del tempo le guerre, come ci
mostra il video, sembrano essere diventate sempre più in-umane e spietate, corroborate da
sofisticati sistemi tecnologici e
digitali atti a colpire un target, annientare scientificamente studiati
bersagli strategici e militari. Dunque cieche a chi o cosa di reale, umano e
vivente si interporrebbe nelle sue immediate vicinanze. Tanto più cieche e spietate,
senza logica altra che una distruzione scientificamente programmata.
Esercizi
di libertà
Shirin Neshat, “Stories of martyrdom” (1994)
Le
mani sono scritte di parole, I palmi scoperti e mostrati, esposti quasi come per
un messaggio messianico, nitido, limpido e indelebile nella grafia. Fanno
pensare a un gesto sacrificale, quasi all’immagine del Cristo che volutamente
si offre come queste mani ai suoi persecutori, si consegna, acconsente perché
la Parola, la Scrittura possa infine compiersi e l’umanità essere salvata. Mani
dai palmi aperti, esposte e senza difese mentre un’arma da fuoco è posta sopra
di loro in maniera distaccata, anonima e impersonale. Si auto-scrivono e
raccontano storie, si offrono inscritte di parole; raccontano ciò che la voce
sola non potrebbe anche volendo raccontare. Dipingono caratteri di scrittura,
geroglifici nella lingua persiana, nitidi nei tratti, neri sulla bianchezza dei
palmi voluta dall’effetto fotografico chiaroscurale quasi volessero raccontare
una verità, sottoscriverla semplicemente nel loro gesto tacito e
inequivocabile.
Marisa
Albanese, combattente (2000-3) e Marina Abramovic , Balkan erotic epic: banging
the skull( 2005)
Combattente,
guerriera moderna e instancabile della vita quotidiana appare vestita d’un
abito essenziale scolpito nella pietra, i piedi nudi e lo sguardo abbassato,
raccolto, concentrato su sé stesso, come una combattente del quotidiano, l’
elmetto più simile a un casco da moto che non a uno militare per connetterla e schermarla
dal contesto circostante. Nella sua posa ieratica, serena e distaccata appare
seduta sopra il supporto d’una colonna
di gesso con gli occhi chiusi, resistente, impenitente in una posa
combattente e guerriera eppur quieta nell’accettazione del presente. Forse la
guerra è anche ogni giorno, sembra dirci l’artista, oggi, domani, sempre, nel
presente delle nostre vite al quotidiano, lei come molti di noi alla ricerca di
quiete, di interna pacificazione con sé stessa e con il mondo posti di fronte
ai fragili equilibri delle nostre società, alle precarie condizione delle
nostre esistenze in un mondo in trasformazione tanto rapido ed effimero quanto
noi stessi.
In Marina Abramovic, di rimando, un’altra combattente indomita appare, questa volta con il volto coperto, schermato come la propria parte logocentrica e razionale dalla chioma dei folti capelli neri, ritratta a busto nudo con il seno esposto e un teschio tra le mani. L’immagine performativa della Abramovic nata per mettere a nudo, sfidare e mettere alla prova sé stessa in una tensione e presenza scenica straordinaria espone apertamente e con fierezza la nudità intrinsecamente legata all’erotismo nell’epica dei Balcani come una forma di investimento rituale, quasi divino a simbolo della fertilità che l’accompagna. Tuttavia, nell’interpretazione della Abramovic l’eros si lega all’impulso opposto e distruttivo a simbolo del teschio che porta tra le mani e il conflitto è già intrinsecamente presente, in questa tensione prima e inspiegabile tra il desiderio e sua disintegrazione , in questo gioco di forze tensive tra attrazione e repulsione, eros e il suo opposto dissolutivo.
In Marina Abramovic, di rimando, un’altra combattente indomita appare, questa volta con il volto coperto, schermato come la propria parte logocentrica e razionale dalla chioma dei folti capelli neri, ritratta a busto nudo con il seno esposto e un teschio tra le mani. L’immagine performativa della Abramovic nata per mettere a nudo, sfidare e mettere alla prova sé stessa in una tensione e presenza scenica straordinaria espone apertamente e con fierezza la nudità intrinsecamente legata all’erotismo nell’epica dei Balcani come una forma di investimento rituale, quasi divino a simbolo della fertilità che l’accompagna. Tuttavia, nell’interpretazione della Abramovic l’eros si lega all’impulso opposto e distruttivo a simbolo del teschio che porta tra le mani e il conflitto è già intrinsecamente presente, in questa tensione prima e inspiegabile tra il desiderio e sua disintegrazione , in questo gioco di forze tensive tra attrazione e repulsione, eros e il suo opposto dissolutivo.
“La parola
come arma” penetra, “la parola di Dio viva ed efficace, più tagliente di ogni
arma a doppio taglio penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello
spirito, fino alle giunture e al midollo a discernere i sentimenti e i pensieri
del cuore”.(San Paolo)
La parola
rivelata dalle Scritture, ma anche la parola poetica, la parola in senso lato
come “arma” di fuoco vivo rubato come nel mito di Prometeo e donato all’arte,
alla poesia, quella parola taglia a vivo la carne fino al midollo afferma Paolo
da Tarsio, penetra lo Spirito dell’uomo portando in sé lo spirito di Dio; ebbene
quella parola sola ha in sé la forza di creare e distruggere, annunciare e
demistificare, più potente di qualsiasi arma da fuoco.
Anima
che sei nascosta, Studio Azzurro, (2018)
La statua
sepolcrale di Guido Guidarello scolpita e distesa nel proprio letto di pietra
diviene nell’ambiente sonoro realizzato da Studio Azzurro un’anima risvegliata
poeticamente alla vita attraverso la risonanza di frammenti di voci da T.S.Eliot,
Dante, Shakespeare ecc.: una messa in vibrazione sonora e visiva dell’immagine
ricondotta dalla sua immobilità al ciclo temporale della ripetizione, dell’eterno
ritorno all’esistenza. Così, mentre “la voce di un uomo urlava in mezzo alla
pietra”, “lui che era Dio ora è morto..”, “Aprile è il mese più crudele, genera
lilla da terra molta, confonde memoria e desiderio”, perché ognuno ignora la
ragione del nostro esserci. La statua diviene nell’effetto dell’animazione
pietra bianca e raggelante “quando il dolore la vinse”, viscere di nebbia e
fumo a dissolverne i contorni simile al
moto vasto e calmo di una marea, bagliori di terre lontane, l’eco del vento tra
le onde, gocce di rugiada stillate una a
una su questo fondo di pietra, un manto di foglie d’autunno svolazzanti in
aria, infine un lago d’acqua ricoperto di ninfee.
Ettore
e Andromaca, Giorgio de Chirico (1924)
“Nelle
guerre moderne tutto si dissimula e la verità non sta mai da una sola parte”
afferma la citazione di Umberto Eco. Se i volti dei due personaggi sulla tela
di De Chirico appaiono anonimi, inumani manichini privi di identità i corpi
ripresi dal modello dell’archeologia classica si intrecciano ibridi, si calpestano e si
sovrappongono in una guerra tra i sessi, in un corpo a corpo violento, in una
stretta tensiva all’ultimo respiro. Ettore e Andromaca nell’ultimo abbraccio
sotto le mura di Troia, appaiono riportati in una temporalità immobile, sullo
sfondo di un paesaggio surreale ricomposto tra citazioni di antiche rovine e segni
o simboli dell’inconscio collettivo. Lì i principi opposti del maschile e
femminile si fronteggiano in un ultimo
abbraccio che sfocerà in cecità, distacco, incomprensione e separazione.
Borders: battaglie, confini e nuove frontiere
Il confine è
linea di demarcazione, barriera, margine ultimo che separa e divide territori
fisici ma anche ideologie, etnie, popoli
o credo religiosi; si definisce in questo senso on il duplice risvolto di ciò
che sancisce e protegge ma anche ciò che
delimita un al di-fuori come altro, straniero e potenzialmente
minaccioso aprendo incrinature profonde di co-esistenza che sfociano spesso in forme di razzismo,
segregazione, scontro o aperto conflitto tra diversi gruppi, etnie o individui.
“Des
Meeres und der liebe wellen” (2003) di Anselm
Kiefer è la rappresentazione di una sorta di guerra cosmica, marittima e
oceanica insieme in uno spazio plumbeo, denso e cupo dove trovano la morte i
due giovani amanti naufraghi nella narrazione originaria che ha ispirato la
tela. Eppure la dimensione della guerra
resta mitica e astratta in Kiefer evocando costellazioni celesti, scie di imbarcazioni
e campi di battaglia, una nave gettata
sull’oceano, il teatro di una battaglia stellare in una visione totalizzante che
ricomprende l’uomo e la terra in un tutto cosmico. Tra i frammenti di materiali
e la ricomposizione per schegge di vetro, legno e vernici risuona la dimensione
senza tempo del mito e il frastuono, l’eco traumatico e cupo del secondo
conflitto mondiale ancora alle spalle: un’intera civiltà affondata insieme
al relitto di una nave striata di
metallo e ruggine.
Maria
Pia Tognini
“Avevo
sognato un bel viaggio ma è stata una ferita, una guerra”(2017),
è la voce di profughi d’Eritrea approdati sulle nostre coste europee nel
corso delle recenti fughe di masse dei migranti esuli di guerra o di carestia
dalle coste libiche all’Europa. Le
parole urlate in un monologo silenzioso riscrivono a grandi lettere traslucide e dorate_ appese a
un filo come le vite di questi individui
e incollate l’una all’altra sull’immenso tavolo orizzontale_ la traccia di una
storia, il tracciato lieve e indelebile della loro memoria. Ricostruiscono la
traversata, il terrore e la speranza, la
preghiera e la gioia dell’approdo, infine la disperazione di chi rimasto
indietro, è là precipitato o perso in quel mare.
“In
mare abbiamo pregato, pregato e pregato.
Poi siamo scesi dalla barca e ci siamo dimenticati di quello che abbiamo chiesto a Dio.
Nelle onde pregavamo tutti insieme e non importava di che religione fossimo, quale Dio pregare.
Io pregavo di fermare il mare, di uscire dal mare intero, di non morire. Sapevamo che Dio era vicino a noi e quel pensiero mi bastava.
Avevo paura ma lo ricordo come un momento bellissimo.
Quando siamo scesi dalla barca ci hanno diviso.
Dove saranno ora quelli che hanno viaggiato con me?”
Poi siamo scesi dalla barca e ci siamo dimenticati di quello che abbiamo chiesto a Dio.
Nelle onde pregavamo tutti insieme e non importava di che religione fossimo, quale Dio pregare.
Io pregavo di fermare il mare, di uscire dal mare intero, di non morire. Sapevamo che Dio era vicino a noi e quel pensiero mi bastava.
Avevo paura ma lo ricordo come un momento bellissimo.
Quando siamo scesi dalla barca ci hanno diviso.
Dove saranno ora quelli che hanno viaggiato con me?”
In un’altra visione dell’Europa, dell’immigrazione dell’alterità, un’utopia spirituale ci è mostrata dai ritagli di carta e inchiostro di Pietro Ruffo in “Migrazioni 24”. Un’altra prospettiva emerge oltre la visione storicamente data del rapporto colonizzato colonizzatore, centro e periferia, occidente e resto del mondo. La visione conica e circolare della terra, inclusiva e idealista nel disegno di Ruffo rovescia le prospettiva e pone sullo stesso piano o meglio al centro le periferie, il resto del pianeta rispetto a quell’occidente dominante e industrializzato dove l’Europa storicamente ha sempre disegnato intono a sé i confini del mondo sulle carte geografiche del Mediterraneo. E un’ altra visione dell’alterità si offre: il Mediterraneo può assumere anche la forma di un compromesso, di un dialogo o di un gioco di parti come nell’istallazione di Pistoletto e non solo l’aspetto lugubre di un luogo d’approdo di masse incontrollate di profughi percepite come minaccia alla nostra sicurezza e incolumità. L’arte contemporanea mostra qui giustamente una via possibile d’uscita da tale dialettica conflittuale sull’immigrazione capovolgendone la prospettiva. Osserva i flussi migratori con una dinamica umana, inclusiva o comunque umanitaria anziché oppositiva, conflittuale e militarista; apre un dialogo con l’alterità dai margini e dalle periferie anziché dal punto di vista dell’occidente per assumere le forme e i colori di una narrazione a partire dal vissuto dei suoi protagonisti.
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