martedì 2 gennaio 2018

Elliott Erwitt , “Personae”: un mondo in immagini (visto ai musei s.Domenico a Forlì)





























“Personae” retrospettiva che rende omaggio con un’ampia scelta fotografica  ai capolavori del fotografo americano Elliott Erwitt presso i musei S. Domenico di Forlì è una molteplicità ironica, a tratti poetica o umoristica, sempre tuttavia profondamente umana di ritratti- i volti delle celebrità e quelli di gente ordinaria- i cani che prendono spesso le loro sembianze o fanno loro il verso,  infine i volti delle città visti attraverso un punti di vista d’eccezione che li rendono unici e, come tali, icone  entrate nella storia della fotografia. Nella prima sezione in bianco e nero fino alla metà degli anni ’70 Erwitt si sofferma in particolare sulla distorsione del punto di vista, spesso prediligendo quello degli animali che affiancand gli esseri umani  e guardano  quella stessa realtà dalla loro postura, nelle loro  dimensioni e posizionamento sulla terra con un implicito risvolto ironico o parodico.

“ Le cose che mi divertono nella vita...le persone senza dubbio_i paesaggi meno_ quello che fanno nella vita e come si comportano. Tutta la mia fotografia riguarda questo. I cani sono un ottimo soggetto  perché sono universali e li trovi ovunque nel mondo. Non obbiettano ad essere fotografati e non chiedono mai impronte..




“New York city”, 1974 ( Taking the shot from a tiny dog perspective”)

Cosa significa essere o vedere la realtà dal punto di vista del piccolo e del minoritario, del basso e non dell’alto, del micro e non del macroscopico, portare l’attenzione ai piedi anziché alla testa, volgere le prospettive come in questa immagine mettendosi nei panni di un piccolo chihuahua umanizzato; la realtà percepita da quella prospettiva appare a lui enorme, disumanizzante negli stivali neri di cuoio lucidi e militari e in grandi zampe simili a quelle di un cammello che gli cammina accanto. Erwitt gioca con i paradossi e si diverte a ribaltare la superficie traslucida ed edulcorata, troppo educata delle apparenze per decentrare costantemente con ironia lo sguardo del suo obiettivo, periferico sull’animale; in particolare assume la misura dei vari prototipi di cagnetti antropomorfi, abitati di umanità parodiando la medesima per parlare del mondo che lo circonda.

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In questa foto I
Nella fotografia divenuta icona erwittiana di New York (1946) per esempio, la città è vista esclusivamente attraverso un dettaglio fotografico portato ed espanso in primo piano: i piedi della donna si mostrano enormi, ingigantiti all’ennesima potenza attraverso i sandali neri sullo sfondo di un viale alberato e di alti edifici in fuga prospettica verso il fondo. Il contrasto appare evidente e scherzoso tra la minuscola postura del Pittsburgh nano che fissa l’obbiettivo e di cui il fotografo assume il punto di vista e le dimensioni di una realtà estranea, smisurata qui resa  a lui incommensurabile.



I volti delle città allo stesso modo sono filtrati attraverso lo sguardo erwittiano di questi prototipi canini alter-ego dell’umano. New York è un viale spazioso nei pressi di Hyde Park democraticamente visto assumendo il punto di vista del piccolo o del periferico in primo piano. Londra (1966) è l’ interno borghese di un salotto ricoperto di moquette floreale, tappetti decorati e un sobrio camino vittoriano al centro sul quale troneggia un orologio a pendolo in suppellettile contornato da minuscole ceramiche e grandi suntuosi candelabri. Nell’immobilità del luogo un bulldozer appare al centro tra il cinico e il derisorio spossato dal grigiore del lusso circostante.
Parigi sono scarpe nere di un charlot dai piedi grandi a punta verso l’esterno, un boulevard e forse un ombrello, un cagnetto che salta in aria tra il bianco e il nero prendendo il volo quasi con poeticità e ironia.





“Ogni fotografo lotta per quel momento straordinario che trascende il tempo e il luogo presente, qualcosa che resta e può essere guardato negli anni a venire. Tale è ciò che chiamiamo magia”

I corpi sono spesso di schiena dando le spalle allo spettatore nelle immagini di Erwitt perché si tende a non mostrare l’oggetto in maniera trasparente come un riflesso immediato di realtà ma invece a sovvertire, rompere o spostare quella superficie apparente, mondana di semplice duplicazione del mondo fisico per metterne in discussione implicitamente i presupposti. In Erwitt si tratta di vedere qualcuno nell’atto del guardare, per esempio soffermandosi a osservare i visitatori ignari nei musei , o ancora, di mettere al centro i piedi e non la testa oppure di prestare l’obbiettivo ai più inusuali punti di vista, spesso quelli canini.

Interni dei Musei e ironia sull’arte contemporanea


 Di Venezia restano le vetrate e i riflessi d’acqua dei canali che riverberano sui quadri divenuti nudi, lucidi e trasparenti negli interni dei palazzi antichi. Al Louvre è ancora la parodia sull’arte contemporanea a far sorridere al centro dell’immagine: in una galleria classica di ritratti figurativi un gruppo di turisti volgendo a noi le spalle si sofferma incuriosito su una cornice vuota con un biglietto da visita bianco  al centro: un’opera d’arte concettuale si chiedono, un lavoro in allestimento, uno sbaglio dei curatori, una cornice temporaneamente svuotata oppure rimasta vuota per inadempienza. Perplessi e allibiti fissano la presunta opera contemporanea negligendo completamente le magnificenti tele classiche.  Al Metropolitan, , una statua di nudo femminile troneggia in bilico al centro sorvegliando gli spettatori contro i riflessi dei cristalli che rifrangono attraverso i corridoi.  Una schiera di scarpe e cappotti di visitatori al Prado compaiono di spalle di fronte a una tela: scarpe da ginnastica, in cuoio, con laccetti, lucide nere o sportive, poi impermeabili, giacche , il gruppo di uomini tutti di fronte al nudo femminile, la donna ironicamente al lato opposto di fronte alla figura vestita.

“La mia prima impressione di New York è stato nel 1939 quando sono immigrato e ho atterrato in questo paese. Una meravigliosa impressione che continua ancora oggi. Una luogo meraviglioso, quello in cui vivo, con cui mi identifico, dove è il mio centro ,le mie  attività e famiglia.”


“New York”, 1955 (Empire state Building)

Solitudine e sospensione: lo skyline newyorkese immerso nella foschia mattutina. Osserva di fronte a lei quella valle di edifici e profili di grattaceli avvolti nella patina densa e opalescente di nebbia. Elegante, sobria ed essenziale nell’abito nero si cela in primo piano dietro il cappello scuro volgendo a noi le spalle. Guarda oltre il parapetto dell’alta ringhiera, oltre il limite della cancellata in lame di bronzo appuntite. Getta lo sguardo oltre, su quella valle biancastra rischiarata dalla soffusa luce dell’alba, irradiante ma velata, distante ma filtrata dalla densa patina mattutina. Là si perdono anonimi e sfuocati gli edifici della città sullo sfondo fino alla grande torre in alabastro che troneggia al centro, maestoso “Empire state building “solo in verticale in mezzo al grande mare di nebbia. Quasi assumendo l’inquadratura di quello sguardo, il fotografo sembra ignorare gli spettatori, nascondere il volto della donna e riquadrare la fotografia attraverso la potenza del suo soggettivo percepito. Lei, nella sospensione mattinale dell’alba, nella nebbia di  false apparenze e sembianze illusorie che impediscono una visione netta e limpida della realtà. La solitudine della metropoli ai suoi piedi ricoperta dall' ingannevole foschia mattutina.


 Fotografia e danza


“Gli elementi di una buona fotografia sono la composizione in primo luogo, il contenuto successivamente e un aspetto più effimero, qualcosa che non si può costruire ma che si riesce a scorgere in alcuni momenti: l’incanto dell’immagine”



















Sono sullo sfondo come profili in controluce; la danza li avvolge sinuosa come una stretta, dolce come una carezza, tenera un abbraccio. E’ lo scivolare lento e cadenzato dei corpi nel ritmo del tango, l’ avvolgere sensuale delle coppie strette nella sala sul linoleum lucido e riflettente del pavimento. Una simmetria perfetta di corpi delineati nell’ ombra sensualmente danzano su una scena casuale ritagliata dalla luce che penetra attraverso una porta-finestra sullo sfondo. Svuotati di presenza divengono icone di loro stessi, “corpi della danza” nell’atto d’essere presi, rapiti, abitati da un movimento innato.
Danzano ora abbracciati nel corridoio di una cucina a Valencia. (1952).Sorpresi dallo scatto si lasciano portare dalla melodia casuale della radio sul sottofondo in pietra dove i loro corpi si muovono tra un lavabo e un mobile da cucina sorpresi nella stretta intima di un abbraccio. Ancora danzano bambini abbigliati per una festa durante un ricevimento in una hall newyorkese svuotata e fredda, forse alla fine dell’evento. Ripetono seriosamente il rituale visto perpetuarsi dagli adulti, insieme giocosi e seri, degni nel ruolo loro assegnato del ballo, e con questo sguardo di innocenza, il piacere celato del gioco mentre paiono prestarsi, di tanto in tanto in sordina  all’obbiettivo.

“Penso che la cosa più importante di una fotografia sia risvegliare emozioni, fare ridere o piangere la gente oppure entrambe le cose simultaneamente. Quando riesci a far piangere e ridere qualcuno allo stesso tempo come Chaplin faceva è il più alto dei risultati. Un obbiettivo supremo”.



La fotografia di Erwitt allo stesso modo parte da un “guardare la realtà” e “interpretare o mostrare quello che si vede” in maniera mai neutrale o con un unico punto di vista ma, invece, scegliendo di mettere  a nudo spesso con ironia o umorismo la contraddizione o il paradosso insito, in quel frammento di vita, spaccato di società o di tempo che intende raccontare. In “Pittsburgh” per esempio (1950) sullo sfondo di un’America dell’apartheid  raziale dominata da un establishment bianco e conservatore un bambino nero è visto ridere di fronte all’obbiettivo in una posa scherzosa frontale alla macchina eppure con una pistola giocattolo puntata alle tempie.  In “North Carolina” (1950), le due metà simmetriche nell’immagine anche visivamente sanciscono la segregazione razziale e sociale dei neri in America platealmente esposta  e etichettata come norma ancora negli anni sessanta. Nel “white side” una bianca fontanella in ceramica, nel “coloured side ”un putrido rubinetto arrugginito e stagnante come protuberanza marginale all’ immagine dove un giovane nero sta bevendo. 






In “Paris 1949” i ragazzini in strada indossano maschere di Carnevale; appaiono simili a personaggi fantastici o mostruosi dai volti deformati mentre accanto a loro si assimilano due ritratti di donne di quel  rione popolare, ugualmente maschere dalle sembianze pittoresche: una venditrice gioconda di mercato , florida e pettoruta dal volto rubicondo accanto a una probabile cliente popolana anch’essa una maschera allegra e rupestre. Come se il mondo fosse questo grande affresco visivo per Erwitt, superficie meravigliosa, a volte corrosa o incrinata, da svelare con ironia, o meglio reinquadrare costantemente là dove i concetti di apparenza e “normalità”  si situano sul confine sottile che li separa dal loro contrario facendoci sorridere e riflettere allo stesso tempo. 
Una serie di schermi visivi mostrano costantemente la contraddizione o l’implicito sguardo parodico portato da Erwitt sul mondo. Schermi sono i finestrini, i vetri, i dettagli irrisori messi al centro dell’immagine, le maschere; infine come in “Colorado” lo sparo sul finestrino di un auto  in coincidenza alla pupilla del ragazzino filtra il suo sguardo sul reale attraverso una frattura o frantumazione del vetro riflettente. Interdizione a vedere direttamente scegliendo invece la mediazione di una lente deformante, qui quella di un vetro infranto che potenzia e rende altra la visione .

Coloured Images (few shots)


“La fotografia: un’esteriorità meravigliosa che talvolta giunge a toccare la durezza che si nasconde dietro la maschera. In quanto fotografo mi occupo di superfici, l’apparenza delle cose”.







Puerto Rico, (Pablo Casals, 1957)

Erwitt dipinse questo paese  come un rifugio di grande serenità e bellezza; i suoi ritratti del noto violoncellista Pablo Casals ebbero un ruolo fondamentale nella  lotta per l’affrancamento del Venezuela dal regime dittatoriale vigente negli anni sessanta.
Una sorta di dittico di presenza/assenza a colori sullo sfondo della sontuosità di una tipica dimora amerinda dove il musicista stava probabilmente ripetendo per un prossimo concerto.
Prima immagine: immersa nella piena luminosità del giorno, la luce filtra attraverso la grande porta-finestra del magnificente salone nell’ora del mezzogiorno. Su una scacchiera di bianchi e di neri scivola come la musica sinuosa e avvolgente, ora lenta e toccante del violoncello nel continuum dell’esecuzione. Casals si trova totalmente assorto, assorbito e abitato dalla  melodia che sta cercando, componendo o inseguendo all’infinito nella realtà sublimata del momento presente.
Seconda immagine: una fotografia in assenza. La sedia è vuota in vimini al centro dello spazio e il violoncello immenso e splendido nel contro-luce d’ombra vi appare appoggiato contro. La grande sala bianca dalle pareti nude è immersa nel silenzio, il pavimento a piccoli riquadri è visto a distanza ora. Nella hall bianca e vuota di fronte alla grande porta smaltata e i muri decorati di stucchi penetra attraverso la filigrana sottile dell’ampio rosone al di sopra. Pervade e illumina la sala sublimando nel silenzio la spazio in una luce rischiarante, quasi divina.

 Immagini d’acqua: Salamanca, Brighton and Venice



Salamanca, Spain (1964)



Stende le lenzuola appena lavate sulle rive del fiume nei pressi di Salamanca. Tessuti bianchi, grandi riquadri candidi e tersi  ricoprono l’erba contro le rive spoglie del fiume immobile nello scorrimento. L’acqua è stagnante, torpida e ferma a ridosso del grande ponte in pietra a vista che lo sovrasta. Sulle rive del fiume distese di bianco candore ricoprono la superficie impervia e sassosa di scorie e sassi lì dove le acque del fiume vengono a depositarsi contro l’erba inaridita del corso.

Venice  (1965)


Palazzi veneziani divorati  e corrosi dalle acque; i loro muri in primissimo piano appaiono mossi, aperti in crepe irregolari, sfaldati dalle correnti che restano non visibili se non per il loro riflesso sui vetri opachi delle finestre chiuse. Panni sono stesi tra le due file di persiane. Un bambinetto esile e magro in bilico cammina ridendo sul bordo del ponte in fragile equilibrio; avanza in primo piano nello scorcio prospettico spingendosi fino a noi quasi oltre il limite della foto. L’anima del luogo, della città d’acqua essenzialmente filtrata attraverso il suo scorcio sul palazzo.


Brighton (1956)  (ovvero duplicare la realtà fino ad approfondirla e sublimarla nel riflesso fotografico)



Una spiaggia d’inverno sulle coste fredde e ventose dell’Atlantico nei pressi di Brighton, traslucida e brillante come specchio. Semi-nudi, in costume, con le scarpe levate e i piedi nudi o  i pantaloni arrotolati al ginocchio camminano a riva, avanzano dentro l’acqua, corrono tra le onde, si allontanano dalla spiaggia, giocano sulla banchina impregnata di limo a ridosso dell’oceano, chiacchierano, volgono a noi le spalle. Sono di schiena, di profilo,  in piedi, ora un bambinetto a carponi sull’acqua scava dentro la sabbia. Miracolo dell’istante, composizione arrestata in un attimo di verità, di vita messa a nudo, esposta e  lì colta in quell’istante effimero e raro che Erwitt definisce “incanto” . Percepiamo tutto attraverso l’immagine: l’inverno, la patina d’acqua traslucida nel riflesso del mare nordico, l’Atlantico, il freddo oceano del Nord, la sabbia slavata dal pallido chiarore solare, i flutti lievi mossi dall’oceano.


Ground Zero, New Mexico (1965)



“Ground Zero”,  è terra di confine, rasa al suolo, impervia, al di là della frontiera Americana o forse al limite tra questa e quella messicana, lì dove venne lanciato il primo prototipo di atomica nel ‘45 prima dell’ esplosione epocale di Hiroshima. Deserto arido in una delle zone più remote e impervie della terra, gli arbusti e le asperità delle rocce si profilano al limite dell’orizzonte evocando la sierra ”oscura"  in New Messico. Dal margine ultimo di una frontiera spostata all’estremo ovest nel paesaggio americano, dal miraggio di oro e libertà nel suo mito fondante a “ground zero”, in New Mexico, come  a Manhattan dopo l’attacco alle Torri  Gemelle nel 2001. Qui, forse il limite ultimo e irreversibile di un territorio reso schegge vetrose di deserto dopo la detonazione atomica,  “grado zero” di civiltà nell’estremo cosmico di distruzione prodotta dalle guerre.



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