“Personae” retrospettiva che rende
omaggio con un’ampia scelta fotografica
ai capolavori del fotografo americano Elliott Erwitt presso i musei S.
Domenico di Forlì è una molteplicità ironica, a tratti poetica o umoristica,
sempre tuttavia profondamente umana di ritratti- i volti delle
celebrità e quelli di gente ordinaria- i cani che prendono spesso le loro
sembianze o fanno loro il verso, infine i volti delle città visti attraverso un punti di vista d’eccezione che li rendono unici e, come tali, icone entrate nella storia della fotografia. Nella
prima sezione in bianco e nero fino alla metà degli anni ’70 Erwitt si sofferma
in particolare sulla distorsione del punto di vista, spesso prediligendo quello
degli animali che affiancand gli esseri umani
e guardano quella stessa realtà dalla loro postura, nelle loro dimensioni e posizionamento sulla terra con
un implicito risvolto ironico o parodico.
“ Le cose che mi divertono nella vita...le
persone senza dubbio_i paesaggi meno_ quello che fanno nella vita e come si
comportano. Tutta la mia fotografia riguarda questo. I cani sono un ottimo
soggetto perché sono universali e li
trovi ovunque nel mondo. Non obbiettano ad essere fotografati e non chiedono
mai impronte..”
“New York city”, 1974 ( Taking the
shot from a tiny dog perspective”)
Cosa significa essere o vedere la realtà
dal punto di vista del piccolo e del minoritario, del basso e non dell’alto,
del micro e non del macroscopico, portare l’attenzione ai piedi anziché alla
testa, volgere le prospettive come in questa immagine mettendosi nei panni di
un piccolo chihuahua umanizzato; la realtà percepita da quella prospettiva appare
a lui enorme, disumanizzante negli stivali neri di cuoio lucidi e militari e in
grandi zampe simili a quelle di un cammello che gli cammina accanto. Erwitt
gioca con i paradossi e si diverte a ribaltare la superficie traslucida ed
edulcorata, troppo educata delle apparenze per decentrare costantemente con
ironia lo sguardo del suo obiettivo, periferico sull’animale; in particolare
assume la misura dei vari prototipi di cagnetti antropomorfi, abitati di umanità
parodiando la medesima per parlare del mondo che lo circonda.
i
In questa foto I
Nella fotografia divenuta icona erwittiana di New York
(1946) per esempio, la città è vista esclusivamente attraverso un dettaglio
fotografico portato ed espanso in primo piano: i piedi della donna si mostrano
enormi, ingigantiti all’ennesima potenza attraverso i sandali neri sullo sfondo
di un viale alberato e di alti edifici in fuga prospettica verso il fondo.
Il contrasto appare evidente e scherzoso tra la minuscola postura del Pittsburgh
nano che fissa l’obbiettivo e di cui il fotografo assume il punto di vista e le
dimensioni di una realtà estranea, smisurata qui resa a lui incommensurabile.
I volti delle città allo stesso modo sono filtrati attraverso lo sguardo erwittiano di questi prototipi canini alter-ego dell’umano. New York è un viale spazioso nei pressi di Hyde Park democraticamente visto assumendo il punto di vista del piccolo o del periferico in primo piano. Londra (1966) è l’ interno borghese di un salotto ricoperto di moquette floreale, tappetti decorati e un sobrio camino vittoriano al centro sul quale troneggia un orologio a pendolo in suppellettile contornato da minuscole ceramiche e grandi suntuosi candelabri. Nell’immobilità del luogo un bulldozer appare al centro tra il cinico e il derisorio spossato dal grigiore del lusso circostante.
Parigi sono scarpe nere di un charlot dai piedi grandi a punta verso l’esterno, un boulevard e forse un ombrello, un cagnetto
che salta in aria tra il bianco e il nero prendendo il volo quasi con poeticità
e ironia.
“Ogni fotografo lotta per quel momento
straordinario che trascende il tempo e il luogo presente, qualcosa che resta e
può essere guardato negli anni a venire. Tale è ciò che chiamiamo magia”
I corpi sono spesso di schiena dando le spalle allo
spettatore nelle immagini di Erwitt perché si tende a non
mostrare l’oggetto in maniera trasparente come un riflesso immediato di
realtà ma invece a sovvertire, rompere o spostare quella superficie
apparente, mondana di semplice duplicazione del mondo fisico per metterne in
discussione implicitamente i presupposti. In Erwitt si tratta di vedere
qualcuno nell’atto del guardare, per esempio soffermandosi a osservare i
visitatori ignari nei musei , o ancora, di mettere al centro i piedi e non la testa oppure di prestare
l’obbiettivo ai più inusuali punti di vista, spesso quelli canini.
Di Venezia restano le
vetrate e i riflessi d’acqua dei canali che riverberano sui quadri divenuti
nudi, lucidi e trasparenti negli interni dei palazzi antichi. Al Louvre è
ancora la parodia sull’arte contemporanea a far sorridere al centro
dell’immagine: in una galleria classica di ritratti figurativi un gruppo di
turisti volgendo a noi le spalle si sofferma incuriosito su una cornice vuota
con un biglietto da visita bianco al
centro: un’opera d’arte concettuale si chiedono, un lavoro in allestimento, uno
sbaglio dei curatori, una cornice temporaneamente svuotata oppure rimasta vuota
per inadempienza. Perplessi e allibiti fissano la presunta opera contemporanea negligendo
completamente le magnificenti tele classiche. Al Metropolitan, , una statua di nudo
femminile troneggia in bilico al centro sorvegliando gli spettatori contro i
riflessi dei cristalli che rifrangono attraverso i corridoi. Una schiera di scarpe e cappotti di
visitatori al Prado compaiono di spalle di fronte a una tela: scarpe da
ginnastica, in cuoio, con laccetti, lucide nere o sportive, poi impermeabili,
giacche , il gruppo di uomini tutti di fronte al nudo femminile, la donna
ironicamente al lato opposto di fronte alla figura vestita.
“La mia prima impressione
di New York è stato nel 1939 quando sono immigrato e ho atterrato in questo
paese. Una meravigliosa impressione che continua ancora oggi. Una luogo
meraviglioso, quello in cui vivo, con cui mi identifico, dove è il mio centro ,le
mie attività e famiglia.”
“New York”,
1955 (Empire state Building)
Solitudine e sospensione: lo skyline newyorkese immerso
nella foschia mattutina. Osserva di fronte a lei quella valle di edifici e
profili di grattaceli avvolti nella patina densa e opalescente di nebbia.
Elegante, sobria ed essenziale nell’abito nero si cela in primo piano dietro il
cappello scuro volgendo a noi le spalle. Guarda oltre il parapetto dell’alta
ringhiera, oltre il limite della cancellata in lame di bronzo appuntite. Getta
lo sguardo oltre, su quella valle biancastra rischiarata dalla soffusa luce
dell’alba, irradiante ma velata, distante ma filtrata dalla densa patina mattutina.
Là si perdono anonimi e sfuocati gli edifici della città sullo sfondo fino alla
grande torre in alabastro che troneggia al centro, maestoso “Empire state
building “solo in verticale in mezzo al grande mare di nebbia. Quasi assumendo l’inquadratura
di quello sguardo, il fotografo sembra ignorare gli spettatori, nascondere il
volto della donna e riquadrare la fotografia attraverso la potenza del suo soggettivo percepito.
Lei, nella sospensione mattinale dell’alba, nella nebbia di false apparenze e sembianze illusorie che
impediscono una visione netta e limpida della realtà. La solitudine della
metropoli ai suoi piedi ricoperta dall' ingannevole foschia mattutina.
Fotografia e danza
“Gli elementi di
una buona fotografia sono la composizione in primo luogo, il contenuto
successivamente e un aspetto più effimero, qualcosa che non si può costruire ma che si riesce a scorgere in alcuni momenti: l’incanto dell’immagine”
Sono sullo sfondo come profili in controluce; la danza li avvolge sinuosa come una stretta, dolce come una carezza, tenera un abbraccio. E’ lo scivolare lento e cadenzato dei corpi nel ritmo del tango, l’ avvolgere sensuale delle coppie strette nella sala sul linoleum lucido e riflettente del pavimento. Una simmetria perfetta di corpi delineati nell’ ombra sensualmente danzano su una scena casuale ritagliata dalla luce che penetra attraverso una porta-finestra sullo sfondo. Svuotati di presenza divengono icone di loro stessi, “corpi della danza” nell’atto d’essere presi, rapiti, abitati da un movimento innato.
Danzano ora abbracciati nel corridoio di una cucina a
Valencia. (1952).Sorpresi dallo scatto si lasciano portare dalla melodia casuale
della radio sul sottofondo in pietra dove i loro corpi si muovono tra un lavabo
e un mobile da cucina sorpresi nella stretta intima di un abbraccio. Ancora
danzano bambini abbigliati per una festa durante un ricevimento in una hall newyorkese
svuotata e fredda, forse alla fine dell’evento. Ripetono seriosamente il rituale
visto perpetuarsi dagli adulti, insieme giocosi e seri, degni nel ruolo loro assegnato
del ballo, e con questo sguardo di innocenza, il piacere celato del gioco mentre
paiono prestarsi, di tanto in tanto in sordina all’obbiettivo.
“Penso che la
cosa più importante di una fotografia sia risvegliare emozioni, fare ridere o
piangere la gente oppure entrambe le cose simultaneamente. Quando riesci a far
piangere e ridere qualcuno allo stesso tempo come Chaplin faceva è il più alto
dei risultati. Un obbiettivo supremo”.
La fotografia di Erwitt allo stesso modo parte da un
“guardare la realtà” e “interpretare o mostrare quello che si vede” in maniera
mai neutrale o con un unico punto di vista ma, invece, scegliendo di
mettere a nudo spesso con ironia o
umorismo la contraddizione o il paradosso insito, in quel frammento di vita,
spaccato di società o di tempo che intende raccontare. In “Pittsburgh” per
esempio (1950) sullo sfondo di un’America dell’apartheid raziale dominata da un establishment bianco e conservatore un bambino nero è visto ridere
di fronte all’obbiettivo in una posa scherzosa frontale alla macchina eppure
con una pistola giocattolo puntata alle tempie. In “North Carolina” (1950), le due metà
simmetriche nell’immagine anche visivamente sanciscono la segregazione razziale
e sociale dei neri in America platealmente esposta e etichettata come norma ancora negli anni
sessanta. Nel “white side” una bianca fontanella in ceramica, nel “coloured
side ”un putrido rubinetto arrugginito e stagnante come protuberanza marginale all’ immagine dove
un giovane nero sta bevendo.
In “Paris 1949” i
ragazzini in strada indossano maschere di Carnevale; appaiono simili a
personaggi fantastici o mostruosi dai volti deformati mentre accanto a loro si
assimilano due ritratti di donne di quel
rione popolare, ugualmente maschere dalle sembianze pittoresche: una
venditrice gioconda di mercato , florida e pettoruta dal volto rubicondo
accanto a una probabile cliente popolana anch’essa una maschera allegra e
rupestre. Come se il mondo fosse questo grande affresco visivo per Erwitt, superficie
meravigliosa, a volte corrosa o incrinata, da svelare con ironia, o meglio reinquadrare
costantemente là dove i concetti di apparenza e “normalità” si situano sul confine sottile che li separa
dal loro contrario facendoci sorridere e riflettere allo stesso tempo.
Una serie di schermi visivi mostrano costantemente la
contraddizione o l’implicito sguardo parodico portato da Erwitt sul mondo.
Schermi sono i finestrini, i vetri, i dettagli irrisori messi al centro dell’immagine,
le maschere; infine come in “Colorado” lo sparo sul finestrino di un auto in coincidenza alla pupilla del ragazzino
filtra il suo sguardo sul reale attraverso una frattura o frantumazione del
vetro riflettente. Interdizione a vedere direttamente scegliendo invece la
mediazione di una lente deformante, qui quella di un vetro infranto che
potenzia e rende altra la visione .
Coloured Images
(few shots)
“La fotografia:
un’esteriorità meravigliosa che talvolta giunge a toccare la durezza che si
nasconde dietro la maschera. In quanto fotografo mi occupo di superfici,
l’apparenza delle cose”.
Puerto Rico, (Pablo Casals, 1957)
Erwitt dipinse questo paese come un rifugio di grande serenità e bellezza;
i suoi ritratti del noto violoncellista Pablo Casals ebbero un ruolo
fondamentale nella lotta per
l’affrancamento del Venezuela dal regime dittatoriale vigente negli anni
sessanta.
Una sorta di dittico di presenza/assenza a colori sullo
sfondo della sontuosità di una tipica dimora amerinda dove il musicista stava
probabilmente ripetendo per un prossimo concerto.
Prima immagine: immersa nella piena luminosità del giorno, la
luce filtra attraverso la grande porta-finestra del magnificente salone nell’ora
del mezzogiorno. Su una scacchiera di bianchi e di neri scivola come la musica
sinuosa e avvolgente, ora lenta e toccante del violoncello nel continuum
dell’esecuzione. Casals si trova totalmente assorto, assorbito e abitato dalla melodia che sta cercando, componendo o inseguendo all’infinito
nella realtà sublimata del momento presente.
Seconda immagine: una fotografia in assenza. La sedia è vuota
in vimini al centro dello spazio e il violoncello immenso e splendido nel
contro-luce d’ombra vi appare appoggiato contro. La grande sala bianca dalle
pareti nude è immersa nel silenzio, il pavimento a piccoli riquadri è visto a
distanza ora. Nella hall bianca e vuota di fronte alla grande porta smaltata e i muri decorati di stucchi penetra attraverso la filigrana sottile dell’ampio
rosone al di sopra. Pervade e illumina la sala sublimando nel
silenzio la spazio in una luce rischiarante, quasi divina.
Immagini
d’acqua: Salamanca, Brighton and Venice
Salamanca, Spain (1964)
Stende le lenzuola appena lavate sulle rive del fiume nei
pressi di Salamanca. Tessuti bianchi, grandi riquadri candidi e tersi ricoprono l’erba contro le rive spoglie del
fiume immobile nello scorrimento. L’acqua è stagnante, torpida e ferma a
ridosso del grande ponte in pietra a vista che lo sovrasta. Sulle rive del
fiume distese di bianco candore ricoprono la superficie impervia e sassosa di
scorie e sassi lì dove le acque del fiume vengono a depositarsi contro l’erba inaridita del corso.
Venice (1965)
Palazzi veneziani divorati e corrosi dalle acque; i loro muri in
primissimo piano appaiono mossi, aperti in crepe irregolari, sfaldati dalle correnti che
restano non visibili se non per il loro riflesso sui vetri opachi delle
finestre chiuse. Panni sono stesi tra le due file di persiane. Un bambinetto esile
e magro in bilico cammina ridendo sul bordo del ponte in fragile equilibrio;
avanza in primo piano nello scorcio prospettico spingendosi fino a noi quasi oltre
il limite della foto. L’anima del luogo, della città d’acqua essenzialmente filtrata
attraverso il suo scorcio sul palazzo.
Brighton (1956)
(ovvero duplicare la realtà fino ad approfondirla e sublimarla nel riflesso fotografico)
Una spiaggia d’inverno sulle coste fredde e ventose
dell’Atlantico nei pressi di Brighton, traslucida e brillante come specchio. Semi-nudi,
in costume, con le scarpe levate e i
piedi nudi o i pantaloni arrotolati al
ginocchio camminano a riva, avanzano dentro l’acqua, corrono tra le onde, si
allontanano dalla spiaggia, giocano sulla banchina impregnata di limo a ridosso
dell’oceano, chiacchierano, volgono a noi le spalle. Sono di schiena, di
profilo, in piedi, ora un bambinetto a
carponi sull’acqua scava dentro la sabbia. Miracolo dell’istante, composizione
arrestata in un attimo di verità, di vita messa a nudo, esposta e lì colta in quell’istante effimero e raro che
Erwitt definisce “incanto” . Percepiamo tutto attraverso l’immagine: l’inverno,
la patina d’acqua traslucida nel riflesso del mare nordico, l’Atlantico, il
freddo oceano del Nord, la sabbia slavata dal pallido chiarore solare, i flutti lievi mossi dall’oceano.
Ground Zero, New Mexico (1965)
“Ground Zero”, è terra
di confine, rasa al suolo, impervia, al di là della frontiera Americana o forse
al limite tra questa e quella messicana, lì dove venne lanciato il primo
prototipo di atomica nel ‘45 prima dell’ esplosione epocale di Hiroshima. Deserto
arido in una delle zone più remote e impervie della terra, gli arbusti e le
asperità delle rocce si profilano al limite dell’orizzonte evocando la sierra ”oscura" in New Messico. Dal
margine ultimo di una frontiera spostata all’estremo ovest nel paesaggio
americano, dal miraggio di oro e libertà nel suo mito fondante a “ground zero”,
in New Mexico, come a Manhattan dopo l’attacco
alle Torri Gemelle nel 2001. Qui, forse il limite
ultimo e irreversibile di un territorio reso schegge vetrose di deserto
dopo la detonazione atomica, “grado zero” di
civiltà nell’estremo cosmico di distruzione prodotta dalle guerre.
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