“Ho
sempre lavorato a partire dai miei sogni nella mia arte da quando ero bambino.
Avevo delle immagini quando iniziai a dipingere di un’enorme stanza con un
dipinto a un’estremità. C’era una tenda che potevo tirare da una parte
all’altra e quando lo facevo il dipinto spariva. Allora l’aprivo di nuovo e
c’era un altro dipinto”[1].
Una parte importante della pittura
di Sam Francis, e dunque, del suo fare creativo attinge a questa radice
inconscia, onirica, immaginativa in un processo attivo di trasformazione della
medesima o, meglio, trovando una propria via d’accesso a questa riserva a
multipli fondi quale spazio o esperienza interiore rivelata dal sogno, egli ponendosi
sin dall’infanzia in un rapporto diretto e creativo al proprio
inconscio, in un atto d’ascolto della propria innata, intrinseca intuizione. L’artista dell’espressionismo astratto
americano definisce la propria arte come “il processo del sogno reso visibile”
perseguendo sulla via d’un cammino interiore che lo porta a “continuare a
cercare, esplorare, scoprire nella ricerca del sé”[2],
di un sé espanso, inclusivo che in qualche modo superi i limiti e le barriere
di un intelletto puramente logico o razionale
per andare ad attingere a qualcosa di più primordiale, più antico alla
radice del proprio fare pittorico.
Francis parla di quell’ intuizione creativa
come di “un dono”, l’evento interiore
di un’inclusione di quella parte dell’universale
femminile ritrovata in sé come “ un guardare al mondo attraverso
altri occhi, gli occhi del femminile, grandi occhi violetti”[3];
spazio o esperienza interiore della conciliazione
degli opposti, animus-anima, ampiamento dell’ego limitato a un’individualità espansa, inclusiva di
coscienza e inconscio, io e es, istanza femminile e maschile insieme dove anche
quella parte oscura del desiderio o della coscienza viene inclusa o riconosciuta come energia creatrice o
potenziale risorsa conoscitiva. Perché come l’artista aggiunge: “quel
luogo interiore è molto importante per me, è sempre stato il modo in cui ho
lavorato, è naturale per me, sono un sopravvissuto grazie a questo”[4].
Il colore appare come vera emergenza
dei quadri, sostanza prima della pittura di Francis nelle tele e i lavori in
acrilico su carta visibili alla Galleria
D’Arte Maggiore di Bologna. Libero di circolare sulla superficie in forme geometriche
astratte o biomorfe, in macchie, diluizioni o ondulazioni, in stratificazioni
di materia o in gradazioni tonali colorate esso è sempre visto, in relazione, in contrapposizione
o comunque in rapporto tensivo con gli spazi bianchi, con questa altra
emergenza fondamentale nel suo lavoro dell’entità d’un bianco immoto, vuoto, assoluto perpetuandosi in
molteplici simbologie, modi e forme nel corso degli anni.
Alternanze di bianchi contorni, riquadri bianchi serialmente
distribuiti in profondità attraverso una terza dimensione evocata dallo spazio
del quadro e macchie o apparizioni lasciate al loro interno rifluire, spontaneo
dispiegarsi in diluizioni liquide ed ammassi
colorati, soprattutto nelle gamme complementari di rosso vivo, blu cobalto e
verde smerando finiscono per arrestarsi su questi bordi-cornici bianchi,
spessi, isolanti emergendo tuttavia ineluttabili nei lavori d’acrilico su carta
a partire dagli anni settanta.
Francis fissa attraverso un’
immagine interiore, un sogno presente nella sua mente che accompagna negli anni
l’intreccio complesso, la commistione inevitabile tra la sua vita e la sua
arte:
“Una
scia di nuvole bellissime fino a quando la terra non fosse ricoperta di nuvole
colorate. Il mio lavoro consisteva nel volare sopra la terra lasciando
strascichi di belle nuvole sopra di me finche tutta la terra, tutto il cielo
non fossero ricoperti d’un reticolo di nubi colorate”[5].
Nella serie dei quadri del medesimo
periodo nuvole colorate appaiono come diluizioni di carmini, violacei e
rossicci, macchie di rossi purpurei coperti, ocra smorzati e blu cobalto
ruotanti intorno a questo spettro di colori freddi, attenuati dall’apporto di
viola o nero anche se densamente, vividamente presenti sulla tela. Dal centro
focale i riquadri colorati appaiono gradualmente retrocedere fino a vedersi dissolvere, lasciarsi scomparire, insieme
al loro fluido materico contro il muro d’energia del bianco sui bordi, sulle
interne cornici o sui margini nell’opposizione netta delineata dall’artista tra
“la luce del bianco della carta” e “l’oscurità della mia anima”[6],
in un confronto serrato tra la medesima e questa altra immota fonte di luce.
“In
Square” (1974) è il grande rettangolo bianco ad impossessarsi dello spazio, del
fulcro visivo del dipinto svuotando e divorando colori e superficie cromaticamente
investiti dall’energia e dalla mobilità di una sostanza-colore fino a quel
momento invasiva, dominante sulla tela ora respinta ai bordi, sui suoi margini laterali.
L’istanza del bianco si impone al centro lasciando sulle limitazioni esterne questa
banda di colore residuale di materia cromatica viva, investita insieme alla sua
interna vibrazione, ora sospesa nella
densità tridimensionale evocata dallo spazio
vuoto, circondata da un oceano di bianco immoto.
A
partire dalla seconda metà degli anni ’50 il bianco sempre più presente
comincia a imporsi sulla superficie delle tele come “una luce risplendente che
illumina tutto e dove i colori rischiano di eclissarsi”: un’irradiazione assoluta, diffusa e pura che
tuttavia minaccia di riassorbire e annullare in sé le forme e le forze del
vivente. La sua istanza luminosa delinea o apre una terza dimensione nel quadro,
questo spazio d’irrealtà, del pensiero se vogliamo come superamento del reale o
della materia verso l’assoluto dell’idea ma, al tempo stesso, si rivela nel
suo abisso di immobilità, barriera o muro del bianco contro il quale il rifluire
delle linee, l’infinità delle relazioni tra forme e colore tende ad arrestarsi .
Things moving toward their disappearence , “le cose muovendosi
verso la loro dissoluzione” come titola
una serie di quadri dell’epoca: il bianco sarebbe là come il senso d’uno spazio
abitato di vita e morte insieme, ritornando da suggestioni letterarie, dalla grande metafora melvilliana
in Moby Dick al bianco assoluto di
Mallarmé per incarnare da un lato l’infinità dell’universo, una purezza luminosa
e terrificante, il bagliore come d’una cometa che irradia una pura luce
spirituale; dall’altro, esso sottenderebbe la bianchezza senza fine dell’immoto,
la percezione acuta dell’assenza o della sospensione della vita della materia nel
cosmo, il muro di immobilità contro il quale si infrange e s’arresta il
turbinio, caotico e molteplice, caldo e disordinato delle relazioni nel
vivente, delle linee e masse colorate sul quadro.
In un
altro dipinto del ’76, “Untitled”, l’opposizione tra la vibrazione calda e
quella fredda del rosso e del blu nelle rispettive gamme colorate, e ancora,
quella tra lo spazio bianco e il colore ritornano in due figure di quadrati
obliquamente posti, trasversalmente fissati a distanza in una messa in tensione
della superficie ( trattandosi di acrilico su carta) attraverso uno scontro
cromatico forte, l’opposizione netta e lineare, senza modulazione possibile tra
le due emergenze del rosso e del blu ricondotte qui alla forma di un
geometrismo astratto. Tutta la superficie nell’alternanza tra spazi bianchi e
colorati è costruita a partire da questa linea tensiva trasversalmente
delineandosi attraverso due polarità opposte che, pur senza essere realmente
tracciate- eppure un’infinità di punti, pulviscoli, schizzi, ne insinuano la
diagonale- , segnano lo spazio nettamente in questo gioco di forze oppositivo tra un polo freddo, distanziante di tonalità oscurante e uno caldo empatico del
rosso.
“L’occhio è la luce del corpo. Il colore è la
luce sul fuoco. Il colore è una
struttura che gioca attraverso la membrana della mente. La forma è vuoto”.
Come
l’artista americano afferma il colore è percepito come “ emanazione luminosa”
scaturita dall’atto del vedere e mediata dal passaggio corporeo, “un’emanazione
di luce che scorre fuori dall’occhio scomparendo infine nel suo abisso”, dunque
non qualcosa di oggettivamente immutabile in natura quanto modulabile tra la percezione
di chi guarda e l’oggetto di tale sguardo. La pittura di Francis traduce
effettivamente tale percezione attraverso strutture ritmiche colorate
potenzialmente ripetibili all’infinito che si sviluppano in senso temporale, in
sequenza seriale secondo una ritmica propria, a essa sola disegnandosi tra il
vuoto e il concatenamento delle forme, tra i bianchi interstizi e l’energia delle
vibrazioni colorate.
“The
riveting of hearts”, (1989) è questo circuito di vibrazioni cromatiche
scaturite dalla materia-sostanza colore nel suo dispiegarsi attraverso linee,
macchie, filamenti, scorrimenti fluidi e continui di cromie in una struttura espressionista astratta.
Come titola il quadro, il pulsare d’un organo vitale, centrale come il cuore,
il suo battito ritmico regolare, senza fine crea uno spazio ritmicamente
definito, scandito da un battito continuo come quello cardiaco che si disegna in
una rete illimitata di canali, grandi e piccoli, in scorrimento attraverso il
corpo-tela. Quasi si fosse di fronte all’apparato circolatorio di un organismo nella
sua distribuzione continua di sangue attraverso le arterie, le vene, i
capillari, i vasi sanguinei qui visti in un reticolo di circolazione fluida fino
a permeare tutti gli organi. Sono scorrimenti, passaggi continui in linee di
colore, macchie, in alcuni casi coaguli o addensamenti di pigmenti colorati,
poi linee di attraversamento, passaggi continui in alternanze di rossi, aranci,
viola o neri, di macchie nero-colanti, del bruciante giallo-arancio d’un nucleo
solare infuocato e distante; dal pulsare del colore attraverso i centri vitali
della tela si segue la sua distribuzione capillare in venature e contro-venature,
in fili, filamenti e fluidi energeticamente
investiti.
Come Francis
afferma: “ I miei dipinti sono molto fisici, sono veramente una parte del mio
corpo.”
L’artista arruolato durante la seconda guerra mondiale fu soggetto a una grave lesione
alla colonna vertebrale seguita da un focolaio di tubercolosi causato da
un’incidente aereo; immobilizzato a letto in ospedale per alcuni anni scoprì la
pittura come via d’uscita e strumento di
passaggio verso un esterno sinonimo di sanità, di ritorno alla vita attraverso
il processo quasi fisico del trasferire o dare un corpo materico a questo
potenziale interno, energetico e mentale sulla tela. Fin da quei primi dipinti porta un’attenzione particolare
all’aspetto organico del corpo partendo
dalla lesione stessa che ne aggrava l’asse portante della colonna percepita
come una minaccia per l’intero organismo, tale la perdita del suo centro o
della sua postura eretta su terra. La pittura nasce a stretto contatto con un
corpo esperito da un lato nel suo potenziale di liberazione d’energia creatrice,
dall’altro nella percezione della sua fragilita' interna e strutturale.
L’atto creativo appare insieme, allora, un incarnare o dare una forma
tangibile, plastica a quella riserva energetica
o del pensiero e, dall’altro, un modo di trasformarne o trascendere
l’intrinseca, interna lesione come se la
pittura scaturisse, fondamentalmente, dalla ripercussione di tale esperienza
corporea all’esterno sulla tela. Il movimento si proietta dall’asse
centrale del corpo nella sua linea
portante d’energia al bianco della carta confrontata al lavoro compositivo. Di qui
il riferimento costante nell’immagine pittorica a reticoli cellulari, organi,
scorrimenti di liquidi attraverso l’organismo in una mappatura possibile del
corpo come tessuto organico immaginabile in controluce sull’emergenza astratta
della tela.
Nel grande acrilico su carta del 1988 grandi polmoni verdi, quasi trasparenti, eterei
simili alla visualizzazione d’un grande dispositivo vitale del respiro,
d’ossigenazione per l’intero organismo, appaiono in un verde diluito, espanso,
smeraldo al centro dello spazio quasi a sintetizzare l’essere umano attraverso
la potenza del suo essenziale respiro. Cuore
e polmoni insieme, sembrerebbe, visti come arcipelaghi galleggianti di un verde
limpido, intenso quanto diluito in un’infinità di venature nere quasi fosse una
mappatura tracciata di linee di tanto in tanto finendo per confondersi al fondo
acquatico . L’organo-cuore al suo centro compare come una macchia lucida e
purpurea, simile a petali di tulipano
gradualmente aprendosi, uno dopo l’altro lasciandosi cadere dal suo nucleo
centrale per dileguare su un fondo brillante, rosso vivo. Macchie d’altri
organi appaiono appena accennate ai lati, quella più intensa organicamente d’un
giallo acceso, smaltato, e, ancora, densità violacee d’altri organi aprendosi a
margine del grande nucleo centrale.
La tela come un grande corpo vitale è essa stessa
immaginabile nella sua parte di torso come ricettacolo, involucro esterno e
protettivo fatto di vertebre, ossa e muscoli, qui un reticolo nero di
filamenti, linee e venature che mappano e insieme proteggono gli organi vitali
di polmoni e cuore. Arcipelago
smaltato e etereo attraversato dalle venature dei suoi interni scorrimenti.
In una versione successiva, la visione si espande e si amplifica in un solo grande polmone
visibile a distanza ravvicinata, smeraldo intenso e brillante contro il quale
la luce si rifrange, come un’irradiazione dell’atto dello sguardo che crea la
pittura. Essa si traduce nella cartografia interna d’un organo attraversato
d’una miriade di iscrizioni e venature
colorate fatte passare, scorrere entro le fibre della carta qui scelta
rispetto alla tela per la sua intrinseca permeabilità al colore. Tessuto cellulare visto del suo interno flusso
d’aria e d’ossigeno. Al centro una macchia rossa, grande e purpurea si impone
come fulcro propulsivo alla vita, cuore che batte, vibrazione , macchia di
presenza donando empaticamente la sua interna, vitale pulsazione a tutta la
struttura astratta del quadro.
[1] Sam Francis, This permanent water, Skira editore, 1997, p. 54
[2] Sam Francis, Ibid., p. 54
[3] Ibid., p. 54
[4] Ibid. , p. 54
[5] Sam Francis., ibid., p. 12
[6] Ibid., p. 12
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