lunedì 13 maggio 2013

Sam Francis, “La libertà del colore” ( alla Galleria d’Arte Maggiore di Bologna fino al 31 Maggio 2013)






 











 “Ho sempre lavorato a partire dai miei sogni nella mia arte da quando ero bambino. Avevo delle immagini quando iniziai a dipingere di un’enorme stanza con un dipinto a un’estremità. C’era una tenda che potevo tirare da una parte all’altra e quando lo facevo il dipinto spariva. Allora l’aprivo di nuovo e c’era un altro dipinto”[1].
Una parte importante della pittura di Sam Francis, e dunque, del suo fare creativo attinge a questa radice inconscia, onirica, immaginativa in un processo attivo di trasformazione della medesima o, meglio, trovando una propria via d’accesso a questa riserva a multipli fondi quale spazio o esperienza interiore rivelata dal sogno, egli ponendosi sin dall’infanzia in un rapporto diretto e creativo al proprio inconscio, in un atto d’ascolto della propria innata, intrinseca intuizione.  L’artista dell’espressionismo astratto americano definisce la propria arte come “il processo del sogno reso visibile” perseguendo sulla via d’un cammino interiore che lo porta a “continuare a cercare, esplorare, scoprire nella ricerca del sé”[2], di un sé espanso, inclusivo che in qualche modo superi i limiti e le barriere di un intelletto puramente logico o razionale  per andare ad attingere a qualcosa di più primordiale, più antico alla radice del proprio fare pittorico.
Francis parla di quell’ intuizione creativa come di “un dono”,   l’evento interiore di un’inclusione di quella parte  dell’universale femminile ritrovata in sé come  “ un guardare al mondo attraverso altri occhi, gli occhi del femminile, grandi occhi violetti”[3];  spazio o esperienza interiore della conciliazione degli opposti,  animus-anima, ampiamento dell’ego limitato  a un’individualità espansa, inclusiva di coscienza e inconscio, io e es, istanza femminile e maschile insieme dove anche quella parte oscura del desiderio o della coscienza viene inclusa o  riconosciuta come energia creatrice o potenziale risorsa conoscitiva.    Perché come l’artista aggiunge: “quel luogo interiore è molto importante per me, è sempre stato il modo in cui ho lavorato, è naturale per me, sono un sopravvissuto grazie a questo”[4]. 

Il colore appare come vera emergenza dei quadri, sostanza prima della pittura di Francis nelle tele e i lavori in acrilico su carta visibili alla Galleria D’Arte Maggiore di Bologna. Libero di circolare sulla superficie in forme geometriche astratte o biomorfe, in macchie, diluizioni o ondulazioni, in stratificazioni di materia o in gradazioni tonali colorate esso  è sempre visto, in relazione, in contrapposizione o comunque in rapporto tensivo con gli spazi bianchi, con questa altra emergenza fondamentale nel suo lavoro dell’entità d’un  bianco immoto, vuoto, assoluto perpetuandosi in molteplici simbologie, modi e forme nel corso degli anni.
Alternanze di  bianchi contorni, riquadri bianchi serialmente distribuiti in profondità attraverso una terza dimensione evocata dallo spazio del quadro e macchie o apparizioni lasciate al loro interno rifluire, spontaneo dispiegarsi  in diluizioni liquide ed ammassi colorati, soprattutto nelle gamme complementari di rosso vivo, blu cobalto e verde smerando finiscono per arrestarsi su questi bordi-cornici bianchi, spessi, isolanti emergendo tuttavia ineluttabili nei lavori d’acrilico su carta a partire dagli anni settanta.
Francis fissa attraverso un’ immagine interiore, un sogno presente nella sua mente che accompagna negli anni l’intreccio complesso, la commistione inevitabile tra la sua vita e la sua arte:
“Una scia di nuvole bellissime fino a quando la terra non fosse ricoperta di nuvole colorate. Il mio lavoro consisteva nel volare sopra la terra lasciando strascichi di belle nuvole sopra di me finche tutta la terra, tutto il cielo non fossero ricoperti d’un reticolo di nubi colorate[5]. 
Nella serie dei quadri del medesimo periodo nuvole colorate appaiono come diluizioni di carmini, violacei e rossicci, macchie di rossi purpurei coperti, ocra smorzati e blu cobalto ruotanti intorno a questo spettro di colori freddi, attenuati dall’apporto di viola o nero anche se densamente, vividamente presenti sulla tela. Dal centro focale i riquadri colorati appaiono gradualmente retrocedere fino  a vedersi dissolvere, lasciarsi scomparire, insieme al loro fluido materico contro il muro d’energia del bianco sui bordi, sulle interne cornici o sui margini nell’opposizione netta delineata dall’artista tra “la luce del bianco della carta” e “l’oscurità della mia anima”[6], in un confronto serrato tra la medesima e questa altra immota fonte di luce.      













“In Square” (1974) è il grande rettangolo bianco ad impossessarsi dello spazio, del fulcro visivo del dipinto svuotando e divorando colori e superficie cromaticamente investiti dall’energia e dalla mobilità di una sostanza-colore fino a quel momento invasiva, dominante sulla tela ora respinta ai bordi, sui suoi margini laterali. L’istanza del bianco si impone al centro lasciando sulle limitazioni esterne questa banda di colore residuale di materia cromatica viva, investita insieme alla sua interna vibrazione,  ora sospesa nella densità tridimensionale evocata dallo spazio  vuoto, circondata da un oceano di bianco immoto.
A partire dalla seconda metà degli anni ’50 il bianco sempre più presente comincia a imporsi sulla superficie delle tele come “una luce risplendente che illumina tutto e dove i colori rischiano di eclissarsi”:  un’irradiazione assoluta, diffusa e pura che tuttavia minaccia di riassorbire e annullare in sé le forme e le forze del vivente. La sua istanza luminosa delinea o apre una terza dimensione nel quadro, questo spazio d’irrealtà, del pensiero se vogliamo come superamento del reale o della materia verso l’assoluto dell’idea ma, al tempo stesso, si  rivela  nel suo abisso di immobilità, barriera o muro del bianco contro il quale il rifluire delle linee, l’infinità delle relazioni tra forme e colore tende ad arrestarsi .
Things moving toward their disappearence , “le cose muovendosi verso la loro dissoluzione”  come titola una serie di quadri dell’epoca: il bianco sarebbe là come il senso d’uno spazio abitato di vita e morte insieme, ritornando da  suggestioni letterarie, dalla grande metafora melvilliana in Moby Dick al bianco assoluto di Mallarmé per incarnare da un lato l’infinità dell’universo, una purezza luminosa e terrificante, il bagliore come d’una cometa che irradia una pura luce spirituale; dall’altro, esso sottenderebbe la bianchezza senza fine dell’immoto, la percezione acuta dell’assenza o della sospensione della vita della materia nel cosmo, il muro di immobilità contro il quale si infrange e s’arresta il turbinio, caotico e molteplice, caldo e disordinato delle relazioni nel vivente, delle linee e masse colorate sul quadro.
In un altro dipinto del ’76, “Untitled”, l’opposizione tra la vibrazione calda e quella fredda del rosso e del blu nelle rispettive gamme colorate, e ancora, quella tra lo spazio bianco e il colore ritornano in due figure di quadrati obliquamente posti, trasversalmente fissati a distanza in una messa in tensione della superficie ( trattandosi di acrilico su carta) attraverso uno scontro cromatico forte, l’opposizione netta e lineare, senza modulazione possibile tra le due emergenze del rosso e del blu ricondotte qui alla forma di un geometrismo astratto. Tutta la superficie nell’alternanza tra spazi bianchi e colorati è costruita a partire da questa linea tensiva trasversalmente delineandosi attraverso due polarità opposte che, pur senza essere realmente tracciate- eppure un’infinità di punti, pulviscoli, schizzi, ne insinuano la diagonale- , segnano lo spazio nettamente in questo gioco di forze  oppositivo tra un polo freddo, distanziante  di tonalità oscurante e uno caldo empatico del rosso.
L’occhio è la luce del corpo. Il colore è la luce sul fuoco. Il colore è una struttura che gioca attraverso la membrana della mente. La forma è vuoto”.
Come l’artista americano afferma il colore è percepito come “ emanazione luminosa” scaturita dall’atto del vedere e mediata dal passaggio corporeo, “un’emanazione di luce che scorre fuori dall’occhio scomparendo infine nel suo abisso”, dunque non qualcosa di oggettivamente immutabile in natura quanto modulabile tra la percezione di chi guarda e l’oggetto di tale sguardo. La pittura di Francis traduce effettivamente tale percezione attraverso strutture ritmiche colorate potenzialmente ripetibili all’infinito che si sviluppano in senso temporale, in sequenza seriale secondo una ritmica propria, a essa sola disegnandosi tra il vuoto e il concatenamento delle forme, tra i bianchi interstizi e l’energia delle vibrazioni colorate.



“The riveting of hearts”, (1989) è questo circuito di vibrazioni cromatiche scaturite dalla materia-sostanza colore nel suo dispiegarsi attraverso linee, macchie, filamenti, scorrimenti fluidi e continui  di cromie in una struttura espressionista astratta. Come titola il quadro, il pulsare d’un organo vitale, centrale come il cuore, il suo battito ritmico regolare, senza fine crea uno spazio ritmicamente definito, scandito da un battito continuo come quello cardiaco che si disegna in una rete illimitata di canali, grandi e piccoli, in scorrimento attraverso il corpo-tela. Quasi si fosse di fronte all’apparato circolatorio di un organismo nella sua distribuzione continua di sangue attraverso le arterie, le vene, i capillari, i vasi sanguinei qui visti in un reticolo di circolazione fluida fino a permeare tutti gli organi. Sono scorrimenti, passaggi continui in linee di colore, macchie, in alcuni casi coaguli o addensamenti di pigmenti colorati, poi linee di attraversamento, passaggi continui in alternanze di rossi, aranci, viola o neri, di macchie nero-colanti, del bruciante giallo-arancio d’un nucleo solare infuocato e distante; dal pulsare del colore attraverso i centri vitali della tela si segue la sua distribuzione capillare in venature e contro-venature, in fili, filamenti  e fluidi   energeticamente investiti.


Come Francis afferma: “ I miei dipinti sono molto fisici, sono veramente una parte del mio corpo.” L’artista arruolato durante la seconda guerra mondiale fu soggetto a una grave lesione alla colonna vertebrale seguita da un focolaio di tubercolosi causato da un’incidente aereo; immobilizzato a letto in ospedale per alcuni anni scoprì la pittura come via d’uscita e  strumento di passaggio verso un esterno sinonimo di sanità, di ritorno alla vita attraverso il processo quasi fisico del trasferire o dare un corpo materico a questo potenziale interno, energetico e mentale sulla tela.  Fin da quei primi dipinti porta un’attenzione particolare all’aspetto organico del corpo  partendo dalla lesione stessa che ne aggrava l’asse portante della colonna percepita come una minaccia per l’intero organismo, tale la perdita del suo centro o della sua postura eretta su terra. La pittura nasce a stretto contatto con un corpo esperito da un lato nel suo potenziale di liberazione d’energia creatrice, dall’altro nella percezione della sua fragilita' interna e strutturale. L’atto creativo appare insieme, allora, un incarnare o dare una forma tangibile, plastica a quella riserva energetica  o del pensiero e, dall’altro, un modo di trasformarne o trascendere l’intrinseca, interna  lesione come se la pittura scaturisse, fondamentalmente, dalla ripercussione di tale esperienza corporea all’esterno sulla tela. Il movimento si proietta dall’asse centrale  del corpo nella sua linea portante d’energia al bianco della carta confrontata al lavoro compositivo. Di qui il riferimento costante nell’immagine pittorica a reticoli cellulari, organi, scorrimenti di liquidi attraverso l’organismo in una mappatura possibile del corpo come tessuto organico immaginabile in controluce sull’emergenza astratta della tela.
Nel grande acrilico su carta del 1988 grandi polmoni verdi, quasi trasparenti, eterei simili alla visualizzazione d’un grande dispositivo vitale del respiro, d’ossigenazione per l’intero organismo, appaiono in un verde diluito, espanso, smeraldo al centro dello spazio quasi a sintetizzare l’essere umano attraverso la potenza del suo essenziale respiro.  Cuore e polmoni insieme, sembrerebbe, visti come arcipelaghi galleggianti di un verde limpido, intenso quanto diluito in un’infinità di venature nere quasi fosse una mappatura tracciata di linee di tanto in tanto finendo per confondersi al fondo acquatico . L’organo-cuore al suo centro compare come una macchia lucida e purpurea, simile a petali di tulipano  gradualmente aprendosi, uno dopo l’altro lasciandosi cadere dal suo nucleo centrale per dileguare su un fondo brillante, rosso vivo. Macchie d’altri organi appaiono appena accennate ai lati, quella più intensa organicamente d’un giallo acceso, smaltato, e, ancora, densità violacee d’altri organi aprendosi a margine del grande nucleo centrale.  
La tela come un grande corpo vitale è essa stessa immaginabile nella sua parte di torso come ricettacolo, involucro esterno e protettivo fatto di vertebre, ossa e muscoli, qui un reticolo nero di filamenti, linee e venature che mappano e insieme proteggono gli organi vitali di polmoni e cuore.                                                                                                                  Arcipelago smaltato e etereo attraversato dalle venature dei suoi interni scorrimenti.



In una versione successiva, la visione si espande e si amplifica in un solo grande polmone visibile a distanza ravvicinata, smeraldo intenso e brillante contro il quale la luce si rifrange, come un’irradiazione dell’atto dello sguardo che crea la pittura. Essa si traduce nella cartografia interna d’un organo attraversato d’una miriade di iscrizioni e venature  colorate fatte passare, scorrere entro le fibre della carta qui scelta rispetto alla tela per la sua intrinseca permeabilità al colore.  Tessuto cellulare visto del suo interno flusso d’aria e d’ossigeno. Al centro una macchia rossa, grande e purpurea si impone come fulcro propulsivo alla vita, cuore che batte, vibrazione , macchia di presenza donando empaticamente la sua interna, vitale pulsazione a tutta la struttura astratta del quadro.




[1] Sam Francis, This permanent water, Skira editore, 1997, p. 54


[2] Sam Francis, Ibid., p. 54
[3] Ibid., p. 54
[4] Ibid. , p. 54
[5] Sam Francis., ibid., p. 12
[6] Ibid., p. 12

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