venerdì 31 maggio 2013

“Autoritratti II " (segue dalla prima parte) , iscrizioni al femminile attraverso il video ( al Mambo di Bologna)



 

Nell’immagine estratta dal video “sulle tracce di Lygia Clark”, sono ancora fili, corde tese colorate o ravvolte in strane contorsioni intorno a un viso e molteplici gesti di mani ripresi nell’atto di avvolgere, arrestare, serrare un corpo,
 soffocare, reprimere, comprimerne la sua propensione al movimento,
contendersi la figura tessendo su quella un’impalcatura di fili colorati simile a un ordito fittamente intrecciato ma d’una trama evanescente, leggerissima, quasi impalpabile.
Una tela di ragno rossa e gialla s’espande e si restringe attraverso lo spazio del corpo percorrendolo nelle sue diagonali fino a toccarne le estremità di mani e piedi. Giunge ad addensarsi a nido, a cunicolo di fili aggrovigliati e informi intorno al torso, al collo, al torace, poi appare svaporare in linee di fumo semi-concentriche sopra la testa disfacendosi per andare a morire da qualche parte lasciando vaghe scie fumose su un fondo smussato e grigiastro. L’impalcatura di fili così intessuti nella performance verrà, infine, sollevata come gabbia iconografica dal corpo immobile, lì ad occhi chiusi disteso; tale la zavorra o il lascito che lo costringeva, l’ involucro che lo comprimeva nella sua esterna sedimentazione.







 




Goldiechiari, “anygirl” 2012 (video ispirato a un caso di cronaca nera, l' omicidio Montesi del 1953)


Oceano-mare, il rifrangersi violento di onde a riva, tracce sulla sabbia, d’un sol colpo cancellate nel dissolvere delle acque contro la terra, nel loro dissipare in lieve, bianca schiuma.
Allungato sulla sabbia, disteso contro la riva nell’andirivieni incessante delle maree, spazzato via dal vento, un corpo naufrago è deposto privo di vita dalle acque che lo ricoprono prima di ritrarsi e ritornare al moto incessante delle correnti, allo sciabordio violento degli oceani. I suoi piedi nudi sono lavati dalle maree, poi le sue mani, le sue gambe inerti. Occhi aperti, fissi, immobili sulla morte. Ora nelle immagini a colori successive in una visione sognata lo stesso corpo appare in un controluce d’ombra sollevarsi, saltare, correre tra le acque, poi allontanarsi da riva procedendo verso la banchina. Vediamo sabbia in impronte di piedi su un bianco e nero telo, poi la sua corsa contro le acque con un drappo svolazzante tra le mani nell’idealità del risveglio, nel riemergere dalla morte per acqua. Qui l’immagine dissolve d’un tratto nel video, si rifrange, si infrange liquida in punti, tracce, macchie di rosso sangue. Segue l’irradiazione bianco-luminosa dell’intero schermo.








Alessandra Spranzi



“Nello stesso momento”, spazi abitati provenienti da situazioni diverse, collage d’ oggetti su vecchie fotografie di case in mobilio desueto creano uno spazio inusuale dove ambienti e cose poste separatamente vengono a esistere “allo stesso tempo”, simultaneamente. Creano spazi immaginifici, estranei eppure materialmente desiderosi d’essere insieme, spazi virtuali nati da questa connettività del collage, adattandosi all’impossibilità d’una reale coincidenza. L’estraneità a ciò che è conduce all’apertura verso nuovi ordini visivi, inconsueti e immaginabili.
Interni d’ appartamenti borghesi, vacui, arrestati nell’immobilità dell’istantanea fotografica in piccole polaroid stile anni ‘70 entrano in contatto con “l’invisibile, l’inconsueto, l’insondabile aperto in loro” : mazzi di fiori su carta da parati in salotto opaco di vecchia cartolina, bottiglia su tavolo incolore e scialbo, macchia rossa di tessuto su divanetto minimalista, specchi e cornici contro un vano tv spento, due volti riflessi di donne scriventi su quello, tovaglia a fiori entro angolo di cucina piastrellato, bottiglia e bicchieri su tavolo apparecchiato ma vuoto, fiori di carta dipinti su salotto con quadri e ceramiche, antro tv accesa su carta bigia da parati, collage con sedie colorate su parete bianca e spenta.




Marion Baruch, infine, da vita a un vero e proprio “autoritratto a più voci” partendo da materiali residuali di produzione tessile industriale; i suoi “ready made” vengono da lei rinominati “ready resti”. Ritagli di tessuti divengono l’abito di Eva Hesse, omaggi a celebri artisti come John Cage o Yoko Ono, un pianoforte, un teatro, una “madelaine”. L’identità nasce attraverso il taglio o il ritaglio del tessuto, non è l’oggetto ma il suo interno svuotamento, il suo lascito, il suo residuo. Sono le cose che ci portiamo addosso, che si sovrappongono, sedimentano, stratificano in noi come memorie, antiche o recenti, genealogiche o personali ma anche quelle che si ritagliano, che si iscrivono in noi svuotandosi, che si perdono per la maggior parte come questi tessuti di cui non restano che bordi, residui, sottili margini. Le opere della Baruch, dunque, divengono questi gusci esterni scavati, ritagliati invisibilmente in leggerissime strutture, quasi gli scheletri ossei che restano dallo svuotamento della reale figura. Ed è in questo ritaglio che le identità appaiono, multiple, in controluce, in rapporto immersivo alle cose o alla loro residuale presenza come grandi bianchi vuoti che appena sostengono le strutture evocate degli oggetti o i loro fragili lasciti. Tele intessute sul vuoto si stagliano lievi in armoniosi ricami sul nulla.

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