“Ai Weiwei, who am I” titola la mostra in
corso fino al 4 maggio a Palazzo Fava di Bologna sull’artista cinese da sempre
impegnato in prima linea nella difesa dei diritti umani. La domanda scelta come
titolo “who am I” appare insieme al ritratto di Weiwei, i suoi occhi grandi
aperti e le mani sul volto a fissare la realtà che lo circonda come attraverso
una lente di ingrandimento per indagare, cercare di comprendere, trovare una
chiave di decifrazione alla medesima. Tale domanda resta al centro del suo
lavoro come di tutta l’esposizione bolognese: chi sono io, dov’è qui, qual è la
verità nella costante ricerca di una più profonda consapevolezza umana e
politica perseguita attraverso l’esperienza artistica. Con quello stesso
sguardo disincantato, vigile e demistificatore Weiwei ci incoraggia a guardare
il mondo con la versatilità di chi riesce a scorrere fluidamente da un mezzo
artistico all’altro tra installazione, scultura, video e fotografia. Lui, da
sempre attivista oltre che artista, blogger e, dopo la soppressione del medesimo da parte del
governo cinese, dissidente politico che espatria in Europa, decide di fare
della propria arte uno strumento fondamentale di cambiamento politico
collettivo. Tra i temi più scottanti oggi affrontati da Weiwei appaiono la
lotta per i diritti umani, le crisi geopolitiche mondiali, il cambiamento
climatico, il diritto alla libertà di informazione contro la repressione o la
manipolazione della medesima da parte dei regimi o delle istituzioni al potere.
Tutto il suo universo creativo in definitiva
non smette di ricordarci il connubio necessario e inevitabile tra creatività e pensiero
critico rispetto al momento presente e alla società contemporanea.
Le opere esposte nelle prime sale ritornano
costantemente al tema del rapporto tra passato e presente nella Cina d’oggi
dove si è assistito a un’operazione di cancellazione progressiva della memoria
storica: l’antica identità imperiale spazzata via dalla Rivoluzione culturale cinese
nell’epoca comunista e poi, a sua volta, la rampante globalizzazione
capitalista di oggi a partire dalla
seconda metà del ‘900. La distruzione della memoria per Weiwei è anche quella
personale attuata attraverso la persecuzione subita nel suo paese fino all’esilio
forzato. Emblematica resta la demolizione imposta del suo studio a Pechino Left/right nel 2018 le cui macerie
recuperate _ frammenti di ceramica bianchi
e blu _ ritornano qui per dare vita
a un'inedita installazione nella sala bolognese. Il tema della memoria
storica è filtrato in altre opere alla luce della relazione tra Cina e
Occidente là dove vediamo nelle prime sale
una serie di capolavori della pittura italiana rinascimentale o moderna
reinventati attraverso un’immagine in pixel
ispirata ai mattoncini lego.
Left/right studio material 2018
Frammenti di sculture distrutte del vecchio studio di Pechino sono lì a terra
in lungo e in largo attraverso tutta la stanza dentro una sorta di cornice
bianca a fissare al muro “l’ultima cena” di Leonardo digitalizzata in versione
lego. Rilucente al suolo una nuova opera
comincia a prendere forma fatta di frammenti, lasciti e schegge per raccontare un’altra
storia con i pezzi di tante storie differenti, galleggianti, alla deriva dal
passato. Ciò che pur non esistendo più
porta in sé una memoria intrinseca, cellulare dentro la materia stessa di un luogo
e tempo precedente, misterioso, inconoscibile per infondere quel vissuto in un nuovo presente con inedita vitalità.
Con ironia Weiwei rilegge e reinventa alcuni
grandi classici rinascimentali italiani ai quali si confronta in versione digitalizzata
questa volta. Nell’ “ ultima cena” riprodotta
da Leonardo l’artista rappresenta sé stesso ironicamente come Giuda,
“colui di cui il regime cinese non si deve fidare”, in ogni caso una presenza
scomoda, disturbante per il governo di Pechino che vuole controllare e mettere
a tacere le voci dissidenti. Ancora, “La
Venere” di Giorgione re-immaginata in versione pixel, ritorna distesa nuda
nelle sue forme piene e perfettamente sinuose, ben proporzionate ma accompagnate
da un elemento dissonante come una gruccia che allude implicitamente agli
aborti clandestini negli Stati Uniti prima della legalizzazione. L’artista con questa
anomala inserzione intendeva denunciare
le conseguenze nefaste che tali pratiche illegali avevano sulla vita di molte
donne negli Usa.
In “Pollock
in blue” Weiwei riappropria il procedimento di dripping pollochiano
portandolo su un piano astratto di anti-materia, il piano dove l’immagine
diventa digitale, fatta di pixel elettronici che rivelano la sintesi astratta
dei blu e dei neri in composizione libera di minuscoli puntini luminosi. La
violenza del segno tipica dell’impressionismo astratto si perde qui così come
l’immersione nello strato colorato di vernici gettate un corpo a corpo contro
la tela da Pollock. Weiwei interroga, al contrario con questo lavoro, il limite
tra immagine digitale e la sua creazione/manipolazione attraverso le nuove
frontiere dell’intelligenza artificiale là dove l’autenticità del lavoro
creativo individuale viene messo alla prova dalle potenzialità insondate delle
nuove tecnologie di intelligenza generativa.
“Dropping a Han dynasty urn”, 1995 (Lasciando
cadere l’urna della dinastia Han)
Un
gesto ironico e performativo è al centro di questa nota serie fotografica di
Weiwei quasi fosse un modo per ripensare la storia imperiale cinese, una
memoria ingombrante quanto antichissima con la quale dover fare i conti nella
dicotomia tra perdita del passato e necessità di non restarne prigionieri. Nei tre fotogrammi della serie il gesto
decisivo, rapido e irreversibile del lasciar cadere il vaso a terra è immortalato con la leggerezza d’una
distrazione: un atto casuale quasi che manda in frantumi un reperto
archeologico illustre, carico di valore, greve quanto il peso della tradizione
incombente sul suo capo. Rompere deliberatamente quel simbolo di un potere
imposto con la forza per Weiwei significa liberarsi del peso soffocante di
un’eredità culturale che non solo rappresenta la dinastia imperiale passata ma
anche l’oppressione politica presente perpetrata contro l’artista da un tacito
regime di controllo e censura in Cina. Distruggere il vaso allora risuona come
un atto creativo e sovversivo rispetto all’autorità politica vigente nel suo
paese_ lui espatriato ed esiliano in Europa_ riscattando così il la sua libertà e pieno
potere di espressione.
Urn
with Coca Cola ( Urna con Coca Cola)
Il logo della Coca cola compare in un’altra
versione della stessa urna antica interpretata da Weiwei evocando Andy Warhol
la pop art e insieme l’ironia dissacratoria
di Marcel Duchamps. Il marchio per eccellenza del consumismo/capitalismo
occidentale con la scritta Coca Cola compare impresso su un artefatto della tradizione orientale
come se l’artista volesse lasciare lì aperto un interrogativo sulla
relazione tra Cina e Occidente nella
geopolitica attuale: quanto tale sogno capitalista di profitto e ricchezza è
entrato prepotentemente dentro la Cina d’oggi sempre più globalizzata ,arresa
alle leggi del mercato, succube del miraggio occidentale sacrificando nel
processo la propria identità e storia?
“Monna
Lisa smeared in cream” ( Monna Lisa imbrattata di vernice)
“Monna Lisa”in immagine pixel, segmentata in
micro-particelle simili a lego è volutamente imbrattata di vernice bianca qui alludendo
alla protesta globale per il cambiamento climatico mentre, in una seconda versione,
Weiwei riconverte lo sfondo in arancio elettronico attraverso gli strumenti di
manipolazione dell’immagine digitale. Ancora una volta la questione aperta è
quella sulla tutela della proprietà dell’opera e dell’identità per il singolo
artista di fronte alle nuove frontiere
varcate o valicabili dell’IA, algoritmi in grado di produrre immagini talmente
definite che sfidano e mettono alla prova i limiti e le potenzialità della
creatività umana tanto da poter rappresentare a seconda del loro utilizzo una
minaccia o strumento potenziale per l’individuo.
“June 1994”
Nel 5° anniversario del massacro a Piazza
Tienanmen una delle più note immagini di Weiwei
celebra attraverso un semplice gesto di resistenza un’esplicita
derisione del potere. Nell’azione performativa l’artista cinese Lu Qing moglie di Weiwei
solleva la gonna di fronte alla macchina fotografica, inquadrata in primo piano
al centro dell’obbiettivo sulla piazza sorvegliata dai militari come fosse la
parodia di una foto turistica sotto lo sguardo di Mao nel ritratto al centro.
Evocativa della tragedia avvenuta 5 anni prima che pose fine al movimento
studentesco l’immagine si erge come atto
di non-rassegnazione, non-sottomissione, non-allineamento alla tacita imposizione
del regime contro il singolo artista che con una certa insolente leggerezza
risponde con questo gesto di totale libertà politica e personale.
“Study of perspective, 1995-2010”
Infine a conclusione del percorso espositivo come non menzionare
la nota serie di Weiwei “study of perspective 1995-2010” iniziata nella stessa
piazza di Pechino nel 1995 e perseguita
come fotomontaggio di un ironico “fuck
off”, anche titolo dell’esposizione aperta a Shangai nel 2000. Il gesto
dissacratorio di aperta resistenza e derisione alle istituzioni oppressive del
suo paese non muta mentre si alternano come varianti sullo sfondo i
fotomontaggi di diversi luoghi iconici della cultura e della storia occidentale : la Casa Bianca,
Buckingham, Palace, la torre Eiffel, la basilica di san Marco a Venezia. Palazzi
del governo e delle istituzioni, volti ufficiali del potere, pareti di intonaco
bianco coprono le manipolazioni ideologiche ad esse connesse e la corruzione di
diritti fondamentali che vi si celano dietro. La prospettiva scelta è quella
dell’individuo o del singolo, dell’artista in una postura critica, vigilante,
non-ceduta al potere, contro un’istituzione che uccide il suo diritto ad
essere, a prendere posizione, a prendere parte, aprendo a un ideale democratico
e egalitario.