martedì 10 giugno 2025

NELLO SPECCHIO DI NARCISO: IL VOLTO, LA MASCHERA, IL SELFIE (al Museo san Domenico di Forlì)







 “Il ritratto dell’artista”, come titola la mostra attualmente in corso ai Musei san Domenico di Forlì fino a fine giugno è una riflessione attraverso il tempo e lo spazio ripercorrendo la storia della pittura occidentale, dalle sue origini greco-latine al contemporaneo  sul tema della rappresentazione di sé, autoritratto,immagine speculare che l’artista restituisce differentemente in ogni epoca convocando anche in una dimensione più ampia, i valori estetici e rappresentativi di una certa epoca.  “Dall’antichità al novecento l’autoritratto è il sublime ricordo dell’antico mito di Narciso narrato da Ovidio nelle Metamorfosi” scrive Gianfranco Brunelli nell’introduzione alla mostra. Sembra che tutta la vicenda della rappresentazione di sé nel corso del tempo e della storia parta da quel mito originario rappresentato a più riprese nella pittura classica:  l’amore verso il proprio riflesso visto in una fonte come espressione estrema di un desiderio ultimo e inaccessibile, auto-referenzialità che in Narciso conduce alla morte. Tuttavia, lo specchio irrompe nell’immaginario occidentale proprio  attraverso tale mito perché l’uomo che si guarda racchiude in sé anche la domanda sul senso dell’esistere e il socratico “conosci  te stesso”. Nell’immaginario occidentale partendo dal mito di Narciso come teorizzato perfettamente da Leon Battista Alberti nel Rinascimento , la rappresentazione di sé  ( la figura che si specchia nella fonte) diviene un atto di conoscenza perché  “ la pittura è il fiore dell’arte e dipingere è abbracciare con lo sguardo ogni cosa specchiata”. In tal senso comincia ad apparire la figura dello specchio, il ritratto dell’artista dentro il quadro e infine l’autoritratto dalla fine del ‘400 là dove le arti visive sono viste come “speculative”  cioè nell’equazione perfetta tra rappresentazione e conoscenza. L’artista, allo stesso modo,  attraverso l’autoritratto acquisisce una progressiva definizione e consapevolezza di sé come uomo di lettere, protagonista del proprio tempo investito di un nuovo ruolo sociale nell’ occidente europeo.

Il tema del volto attraversando tutto il Rinascimento genera da un lato una serie infinita di allegorie che popolano con il proprio intento moralizzante tanta parte dell’arte occidentale  _ tali la virtù, la vanità, la bramosia spesso a soggetto femminile. Dall’altra parte gli artisti nel XV secolo sentono per la prima volta la necessità di rappresentarsi inseriti  in scene collettive non più come semplici esecutori e artigiani dell’opera ma come creatori, testimoni morali dei fatti rappresentati mentre sempre più la forma dell’autoritratto comincia a imporsi come genere a partire dal ‘500 . Con l’avanzare verso la modernità all’inizio dell’ 800 da una parte assistiamo all’affermarsi della scultura neoclassica con una serie di ritratti auto-celebrativi che appaiono a voler divinizzare quasi il soggetto fino a renderlo immortale come nel caso di Canova. Da un altro punto di vista, la soggettività romantica emerge prepotentemente nella prima parte dell’800 restituendo attraverso l’autoritratto valori quali il puro genio, la potenza creatrice, la condizione esistenziale dell’artista  con Francesco Hayez, Moreau, Fattori ecc  in una dimensione più intimista che anticipa la modernità. Con la nascita delle avanguardie nel primo novecento e il clima di ritorno all’ordine tra le due guerre l’autoritratto è vera e propria dichiarazione di estetica,  manifesto dell’unicità di ogni singolo pittore. “Narciso nello specchio del novecento”  nell’ultima parte della mostra riflette di sé un’immagine frammentata, divisa, volutamente scomposta o fatta a pezzi nello specchio prismatico e infranto del cubismo prima e della Prima guerra Mondiale poi  attraverso un continuo, quasi ossessivo psicoanalitico studio di sé. Infine nell’ultima sala dedicata al contemporaneo che titola  “Il volto e lo sguardo” il tema dello sguardo irrompe al di là e insieme a quello del volto evocando  nelle svariate rappresentazioni di sé la dimensione del corpo in primissimo piano nel suo risvolto di dolore, di grido o di estasi liberatoria come in Marina Abramovic comunque di una dimensione esperienziale, soggettiva, a tratti intimista che sperimenta a 360 gradi con le più svariate tecniche e materiali tra i quali soprattutto l’immagine fotografica.

Il mito di Narciso nelle arti visive



Nell’affresco murale del I secolo d.c proveniente da Pompei, “Narciso, Eco ed Eros”affiora, già  nella pittura greco-romana a metà cancellata dal tempo il mito del giovane Narciso  visto là sul punto di immergersi alla fonte mentre sedotto resta  prigioniero del  proprio riflesso  respingendo l’amore disperato di Eco alle sue spalle. In “Narciso alla fonte” di Tintoretto lo stesso personaggio è rappresentato secondo i canoni della pittura veneziana della metà del  ‘500 circondato da alberi e rocce in una cornice suggestiva alle spalle mentre Narciso si inchina sull’acqua con rapimento e malinconia in un inappagabile desiderio,  amore verso sé stesso  che lo condurrà alla dissoluzione nel lago. Se alla fine del ‘700 nella singolare versione di Guy Head Narciso dilegua sullo sfondo insieme al paesaggio mentre la dea Eco ricompare in primo piano sospesa nella semi nudità,  avvolta da un velo  come figura flessuosa e sensuale evocando quella sola voce che nel mito continua a echeggiare invano per cercarlo.  Nell’arazzo del 1971 di Corrado Cagli, “Narciso Moderno” il mito viene reinterpretato in chiave inedita: l’individuo appare allo specchio di sé, espanso a grandezza naturale sulla parete visto attraverso un filtro bluastro e ocra. La figura magnificente è esaltata nella piena autonomia di un corpo nudo, ben delineato, plastico e plasmato come argilla. Narciso è visto lì nel riflesso malinconico di un desiderio impossibile a soddisfarsi, infuso di grazia e bellezza sullo sfondo di una natura statuaria immensa in toni ora terrestri ora malinconici.  

Venere Vanitas Tiziano


Lo specchio nel corso dell’arte occidentale da semplice oggetto di rappresentazione  si trasmuta in simbolo, metafora dell’atto del vedere, dunque alla base di ciò che chiamiamo immagine.  Come l’immagine si relaziona al linguaggio per quella corrispondenza univoca tra il visibile e il dicibile allo stesso modo la storia della pittura occidentale è costellata da una serie di correlativi al volto rappresentato o riflesso : la maschera dell’attore, la maschera funeraria, il volto naturale o quello artefatto per esempio dal grottesco di un  quadro. Dal medioevo in poi lo specchio compare con diversi significati nella pittura, dalla creatura  riflessa come specchio del creatore, all’allegoria sulla caducità della vita e della vanità nel 1600. In Venere Vanitas” di Tiziano ( 1490) ,per esempio, la nobildonna veneziana incarnando una bellezza ideale ispirata alla dea Venere  ammira sè stessa al parapetto posto fuori dal nostro campo di visione. Dunque la giovane dama fissa il suo volto su uno punto focale posto fuori dal nostro sguardo mentre noi percepiamo lei semplicemente come ieratica figura: il corpo nudo avvolto a metà da una tunica, il seno scoperto, i gioielli scintillanti sul candore del bianco incarnato. Il suo ritratto seducente e altero esalta la bellezza come pura vanità sublimata allo specchio della medesima.  

Auto-smorfia Giacomo Balla, (1900)







L’estetica simbolista alla fine dell’’ 800 conduce all’estremo il pre-esistente soggettivismo romantico anche grazie all’ avvento della fotografia moderna contestando gli stereotipi collettivi verso la costruzione di una mito del sé del tutto personale. La rappresentazione dell’artista visto  come genio ribelle e solitario nella sua accezione romantica ci conduce direttamente al cuore dell’avanguardia. Lo specchio nel  ‘900 riflette un volto sconosciuto di Narciso, estraneo perfino a sè stesso oppure una pluralità di sfaccettature di sè spesso contrastanti, eterogenne o stravaganti come nel “autosmorfia” di Giacomo Balla nella ricerca futurista di una radicale mutazione estetica. L’artista nel ‘900 si indaga, si espone, si auto-analizza  in una nudità metaforica che è anche quella della maschera pirandelliana come in  “Autoritratto nudo” di De Chirico. E il volto rimanda anche alla nozione di umano come enigma, alla dicotomia tra apparire ed essere, alla psiche come zona  d’ombra o dell’altro in sé.Portando sulle spalle, la coscienza dell’orrore della storia del ‘900.

 Il ritratto  contemporaneo:  Bill Viola , Marina Abramovic





Le sperimentazioni in questa sezione sono tra le più disparate e differenti per tecniche e stile ponendo, tuttavia sempre al centro la dimensione del corpo nel suo grido disperato, incontenibile ora di estasi ora di dolore. L’artista Chuck Close ci trascina attraverso un primo piano sorprendente dentro i suoi occhi messi in rilievo, dentro il suo sguardo espanso come attraverso una lente di ingrandimento fino a convocare dal corpo la psiche, dal visibile l’inconscio con un intenso e immediato impatto visivo. Bill Viola, allo stesso modo, in “Self-portrait submerged” evoca l’episodio in cui a 6 anni finisce nel fondo di un lago rischiando di annegare perchè non sapeva nuotare mentre d’un tratto l’acqua diviene nel video girato molti anni più tardi l’elemento salvifico. Le fluttuazioni dell’acqua prendono il sopravvento sulla figura statica del corpo quasi ceduto all’immobilità  mentre la bellezza e l’armonia della dimensione acquatica si impongono sulla stasi incarnata dalla figura. Nelle due fotografie di Marina Abramovic dal titolo “Ecstasy, with eyes close I see happyness” l’artista pone sè stessa al centro della scena autorappresentandosi  in un gesto che passando attraverso il volto dagli occhi chiusi incarna il momento estatico del grido trattenuto o meno, visibile o immaginabile in un sotteso invito a guardarsi dentro mentre il mondo è lasciato per una volta alle proprie spalle lontano da sè e dalla fotografia. Quasi a ricordarci come il ritratto nel post-moderno sia sempre più questo prisma infranto di un’immagine capace di rinviare innumerevoli riflessi diversi e discordanti tra loro dove la verità e la dissimulazione si confondono nel gioco ultimo dell’auto-rappresentazione.    







domenica 4 maggio 2025

Alphonse Mucha/Giovanni Boldini tra Art Nouveau e ritratto ( a Palazzo dei Diamanti, Ferrara)

 

Le opere di Alphonse Mucha e Giovanni Boldini creatori di una inedita visione della bellezza al femminile ricompaiono in un faccia a faccia affascinante a Palazzo dei Diamanti presentandoci le loro figure di donne libere, eteree e seducenti agli inizi del ‘900 insieme un linguaggio artistico ispirato a forme naturali agli antipodi delle nuove avanguardie moderniste della stessa epoca. Boldini, ferrarese d’origine era già noto e ammirato nella capitale francese soprattutto per il genere del ritratto in cui eccelleva; Mucha, slavo di provenienza approdò lì nell’autunno del 1887 per  affermarsi rapidamente e spopolare con il suo stile decorativo definito “Art Nouveau”.  Mucha ammirò le opere di Boldini all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 alla quale lui stesso prese parte commissionato dal governo austriaco per la decorazione del padiglione bosniaco. Al di là della conoscenza diretta tra i due artisti e le loro singole opere che si incrociano trasversalmente nella capitale parigina, possiamo riconoscere  un’ispirazione comune incentrata sul tema della bellezza o meglio di un ideale femminile  che attribuisce alla donna una dignità e libertà nuove fino ad allora negate dalla società.






Sia le forme aggraziate e seducenti   del corpo femminile che linee sinuose della natura guidano lo sguardo dei due artisti  e costituiscono il punto focale da cui scaturisce la loro nuova visione, sempre e comunque di ispirazione antropomorfa e non astratto-geometrica come voleva tanta arte moderna dello stesso periodo.

Alphonse Mucha: donne, icone e muse

Giunto a Parigi alla fine dell’Ottocento Mucha, inizialmente illustratore di libri e riviste, assorbe il fervore artistico della capitale elaborando a poco a poco un nuovo linguaggio visivo, detto “art nouveau” destinato a rivoluzione la grafica moderna. La svolta avviene nell’incontro con l’attrice Sarah Bernhardt che impressionata dall’intensità espressiva delle sue composizioni gli commissiona la realizzazione di manifesti e locandine per i suoi più noti spettacoli.  Come la Bernhardt afferma Mucha aveva il dono straordinario di saper ritrarre “l’animo dei personaggi”,  quell’ispirazione tragica o poetica che l’attrice mirava a espandere all’ennesima potenza con la sua interpretazione sul palcoscenico. Sono eroine tragiche come Medea di cui cattura l’angoscia e la disperazione nel gesto omicida verso i figli, oppure figure eteree, dall’aurea spirituale e il capo coronato di gigli in netto contrasto allo sfondo come in “Princesse Lointaine” o “La Samaritaine”.  

Nell’arco dei vent’anni successivi Mucha continuerà a lavorare su manifesti, più di centoventi commissionati per finalità pubblicitaria, che diventeranno vere  e proprie icone dell’Art Nouveau. L’oggetto al centro dei medesimi resta l’ideale femminile, i colori perlopiù pastello, i contorni marcati sullo sfondo, le composizioni poste  in verticale a grandezza naturale. E’ in quest’ambito pubblicitario  che Mucha ha la possibilità di sperimentare liberamente con nuove modalità comunicative creando per citare un esempio tra i molti la grafica per il prestigioso marchio di champagne Moet&Chandon. In questo senso, Mucha può essere visto come uno degli iniziatori della grafica pubblicitaria moderna influenzando tutta la comunicazione successiva con i suoi motivi floreali, linee fluide e dettagli decorativi  che annullano la barriera tra ricerca estetica e finalità commerciale.


Installazione “ I fiori di Mucha”




I fiori sbocciano, emergono in superficie e si aprono dagli sfondi dei quadri o dei manifesti magnificati dall’immagine digitale animata, tridimensionale quasi, espandendo verso di noi dalle pareti della saletta. Irradiano insieme ai colori pastello i volti animati dei ritratti. Essi prendono vita di fronte ai nostri occhi immergendoci letteralmente nella particolare atmosfera dei quadri, quella visione spirituale  con la quale Mucha intendeva esaltare il potere del femminile attraverso l’aurea di un volto, una figura immersa in una dimensione unica che la rende icona moderna. Idealizzata ed espansa attraverso l’installazione sulle quattro pareti  della  stanza come in un mondo di sogno ad occhi aperti nel quale noi visitatori siamo chiamati a entrare fisicamente, lasciarci trasportare con il corpo e i sensi tutti in una vera e propria esperienza immersiva.

Spiritualismo e ritorno in patria

Accolto nella Massoneria nel 1998 il lavoro di Mucha diviene nel corso degli anni sempre più impregnato di una dimensione spiritualista che sfiora la teosofia e il misticismo come denota il volume illustrato  del 1899 “Le Pater” pubblicato in esclusivamente in 510 copie numerate come reinterpretazione del Padre Nostro. Compaiono nelle illustrazioni scene di apparizioni messianiche come una figura irradiata di luce che offre dall’alto una chiave di svolta a un’umanità prostrata, piegata su sé stessa e incapace di reagire;  tale, l’esortazione al progresso morale del genere umano. Nella visione di Mucha l’arte non può essere “nuova” o moderna secondo un’effimera  idea di cambiamento perché per sua natura essa deve contribuire alla crescita spirituale dell’umanità vale a dire elevare lo spirito attraverso l’armonia e la bellezza a un esito superiore. Come egli afferma: è necessario “accendere di luce il cammino del mondo”, una luce imperitura in grado di far risplendere l’essere umano portando in sé un valore immutabile e eterno.  


 Epopea slava

Nel 1910 Mucha decide di rientrare definitivamente in Boemia dopo anni di assenza per realizzare forse il sogno di una vita: rendere la propria arte strumento di espressione e lotta per il proprio popolo affermando valori libertari e nazionalisti in primo luogo l’indipendenza dall’impero austro-ungarico. Tale tema è perfettamente rappresentato dalla tela “ Canto boemo” (1918) dove tre giovani donne compaiono nella loro sensualità sullo sfondo bucolico di una collina in abiti tradizionali boemi incarnando i valori di libertà e patriottismo.  “L’artista deve insegnare al popolo ad amare la bellezza” scriveva Mucha a proposito della sua visione estetica, e tale appare il senso ultimo del monumentale ciclo pittorico, “Epopea Slava”: narrare i momenti fondanti della storia slava dal III al XX secolo in un grandioso racconto per immagini che esalta i valori di libertà e progresso per una nazione di lì a poco nascente.

Lo “stile Mucha” con il suo linguaggio artistico innovativo ispirato alle forme della natura attraverso linee sinuose e in movimento trova un corrispettivo perfetto nella coreografia di una delle più singolari ed eclettiche danzatrici di inizio XX secolo Loie Fuller che ammiriamo nel video riproposto alla fine del percorso espositivo. Lì la danza esprime attraverso le linee sinuose  e ondeggianti dell’abito a molteplici veli nonché nel movimento continuo delle braccia nella danzatrice “la meravigliosa poesia del corpo”. Quella stessa bellezza e poesia dominano sulle tele di Mucha, sui suoi volti femminili ora eterei ora ieratici che si stagliano limpidi dallo sfondo. L’art Nouveau raggiunge  con Mucha i suoi massimi esiti per eclissarsi rapidamente oscurata dal filone diametralmente opposto dell’arte moderna fino al secondo dopoguerra e riemergere prepotentemente solo negli anni ’60 fonte di ispirazione per i nuovi artisti della grafica contemporanea.

Giovanni Boldini, il ritratto

Ritrattista di fama internazionale di una generazione precedente a quella di Mucha, Boldini, ferrarese d’origine, si afferma nella Parigi della Belle-epoque  grazie al suo talento straordinario nel restituire il carattere intimo, spregiudicato e disinvolto di una nuova femminilità agli albori del XX secolo mentre le sue figure femminili divengono presto il simbolo di una nuova epoca. Si scorge lì, nella modernità dei suoi ritratti, la percezione di una donna nuova, solitamente sottile o lungi forme vista come attraverso uno specchio rilucente in pochi tratti fluidi ed essenziali che riflettono perfettamente lo spirito vitale e mutato della modernità. Ora avvolta da un fascino misterioso simile a una borghese distante e altolocata, ora in una visione più gioiosa, di vivida giovinezza come in “fuoco d’artificio” (1985). Qui  un abito leggero fatto di drappi bianchi restituisce agli spettatori una ventata di leggerezza.


In uno dei suoi ritratti più noti di Oliva Concha de Fontecilla detto  “La signora in Rosa”( 1916) lo stile incisivo di Boldini emerge nella posa insolita della figura che con audacia protende dal sofà nel quale posa verso lo spettatore nella giovinezza e vivacità del suo sguardo, scintillante e acuto. Come il colore rosa dell’abito scollato ed elegante che Oliva indossa la donna abbraccia la vita mostrando un’ inedita audacia e libertà all’inizio del  XX secolo. Levità del tratto e seduzione dello sguardo ancora una volta accomunano  Boldini a Mucha, entrambi grandi cantori del fascino femminile qui investito di una nuova idealità moderna.




martedì 1 aprile 2025

“Grant on Photography”, giovani artisti al Mast di Bologna










Cinque artisti della più giovane generazione , finalisti del “Mast photography Grant ” espongono attualmente al Mast di Bologna in un progetto originale e inedito incentrato sui temi di lavoro, industria nella sua ultima evoluzione tecnologica e digitale che  trasversalmente incrocia quello dell’immigrazione sullo sfondo di un mondo globale partendo dalle realtà post-coloniali da cui molti di essi provengono.  Il dialogo si presenta sin da subito come inter-generazionale tra questi giovani fotografi e i loro predecessori, genitori o nonni riportandoci alla storia di paesi post-coloniali in Africa centrale, all’ Iran oppure a realtà marginali come la Polonia rispetto alla visione dominante del mondo occidentale.

Da un artista all’altro attraverso proposte stilisticamente differenti, inedite  quanto di grande creatività le tematiche si riconnettono,  tessendo una rete comune in un gioco di multipli rinvii : la ricerca di vie di fuga verso futuri più giusti per tutta la specie per l’iraniana Sheida Soleimani, la lotta contro una xenofobia sistemica verso tutti i migranti per Kai Wasikowski, infine l’industria  4.0 che si confronta alle nuove automatizzazioni prodotte  dal’ IA applicata  ai processi produttivi.


Kai Wasikowski compie un viaggio a ritroso, reale e metaforico, dall’Australia paese di immigrazione della famiglia alla Polonia paese di provenienza della nonna e insieme a lei riscrive a distanza di anni in un reportage fotografico la memoria famigliare dove momenti di intimità come la passione per l’apicultura si sovrappongono al tema dell’immigrazione e della xenofobia.  Collage di fotografie intimiste, dettagli su oggetti insignificanti della vita quotidiana in Australia ora in Polonia, riempiono in un vero e proprio catalogo visivo l’immensa parete dell’installazione fotografica creando questo mosaico di minuscoli momenti che ricostruiscono a ritroso la storia di un’esistenza.   


Come scrive Wasikowski: “Il punto di partenza è mia nonna emigrata negli anni ‘70 dalla Polonia all’Australia insieme a mia madre a bordo di una nave da carico. (..)E’ un’esperienza comune a molti lavoratori migranti che hanno dovuto combattere gli effetti della xenofobia sistemica e spesso si sono visti negare un posto di lavoro nel settore da cui provenivano”. Sulla parete immensa del Mast i visitatori restano in primo luogo sorpresi da questo grandioso inventario fotografico dato da una serie di riquadri ciascuno incorporando un oggetto, un piccolo dettaglio, simile a una tassonomia del quotidiano intorno al teme della cura delle api, la prima grande passione della nonna. Con auto-ironia si rappresenta in una foto coperta da una tuta a svariati colori, copricapo rosa e pantofole lise sotto la cortina blindata di tela che le protegge il volto mentre si accinge al delicato lavoro di estrazione del miele dagli alveari. Trasferimento di alveari come migrazione di  persone attraverso i più comuni movimenti migratori dall’est all’ovest del continente europeo. Una serie di temi si intrecciano in queste foto invitandoci implicitamente a riflettere con una certa leggerezza ed ironia; le immagini scorrono tra i luoghi perduti di una prima vita e quelli ritrovati in una seconda nel corso di questo viaggio a ritroso reale e fotografico nel tempo e nello spazio verso una rivisitazione della memoria.

 



 Flyways” ( Rotte migratorie) dell’iraniana Sheida Soleimani, opera vincitrice al Grant on Photography , ci parla di simboliche vie di fuga che si delineano come messaggi  criptati all’interno delle sue composizioni/collage fotografici per combattere la censura e la repressione subita dalle donne iraniane del movimento “Donna, vita, libertà”. Il lavoro dell’artista dal forte impatto politico è stato profondamente segnato dalle persecuzioni subite dalla famiglia in Iran fino all’esilio negli Stati Uniti ma, anche, dal suo ruolo di operatrice per la riabilitazione della fauna selvatica in una clinica chiamata“Congress of the birds”.Da una parte, dunque sono le immagini di uccelli migratori (affidati alle sue cure) feriti dalle infrastrutture create dall’uomo nella logica della loro detenzione; dall’altra sono gli oggetti simbolici carichi di significato come un telefono, lettere scritte, ganci che imprigionano o barriere che separano lì aggiunti nel montaggio fotografico per produrre una sorta di shock visivo nello spettatore: libera associazione di idee, un pensiero critico e creativo.




 “Flyways” sono rotte migratorie in grado di trasmettere messaggi criptati preservando l’incolumità dei rifugiati, in primo luogo i genitori esiliati quanto i volti reali delle donne iraniane facendo parlare al loro posto oggetti simbolici, uccelli o altri rapaci feriti all’interno di scenari  fotografici accuratamente composti. Ci parlano di storie di fuga o di prigionia; sono grida tacite di libertà, comunicazioni telefoniche interrotte, scambi di lettere mai giunti a destinazione, ombre di aerei che si profilano minacciosi all’orizzonte e ancora le feritoie dove gli uccelli rimangono imbrigliati o feriti. Compaiono artigli, becchi,dettagli di rapaci feriti ma anche le mappe geografiche e il profilo delle montagne dove il padre di Soleimani è fuggito per raggiungere per primo la terra della libertà fuori dalla persecuzione  politica iraniana.




Ritratti di donne africane commercianti di tessuto stampato  in Togo sono al centro del lavoro di  Silvia Rosi “Kodi”.  Queste stampe wax molto diffuse dagli oltre 350 mila disegni colorati  sono parte integrante della vita urbana nel continente africano da Johannesburg, a Nairobi,da Dakar a Bamako. Con esse si realizzano abiti, camicie, scarpe, ombrelli e rivestimenti per mobili. La serie di ritratti di Silvia Tosi artista italiana di origine toghese rende omaggio  proprio alla storia di queste donne  commercianti che controllavano la compravendita dei tessuti. A Lomé in Togo quali prime donne d’affari venivano chiamate “Nana Benz” sfoggiando lussuose automobili al proliferare dei loro commerci. Da ricerche effettuate durante il suo viaggio in Togo la fotografa scopre che esse sostenevano in segreto il movimento per l’indipendenza del paese trasportando messaggi criptati nascosti dentro le stampe dei tessuti da una parte all’altra della città.

Le stampe in negativo illuminano i profili, i volti, gli abiti come assistessimo a un effetto di sovra-esposizione luminosa, un sorte di controluce violento dove le figure si stagliano irradiate sullo sfondo, viste spesso di schiena dallo spettatore oppure in un iconico profilo mentre le ombre divengono immagine, il bianco volge in nero e viceversa. La stampa del negativo prima che divenga fotografia giunge in qualche modo a stravolgere i termini estetici della rappresentazione ,  restituendo dignità e bellezza a queste donne riportate al centro della scena nella lotta per l’indipendenza del paese come le protagoniste infine.  In tale società gerarchica dove non avevano voce in capitolo Rosi sembra restituire pieno potere e dignità al femminile oltre gli stereotipi dei ritratti in studio nella tradizione africana.


Gosette Lubondo, “Imaginary trip III”




Le industrie nella provincia del Congo Centrale parte integrante della “missione civilizzatrice”voluta  in epoca coloniale sono state progressivamente disertate negli anni successivi alla fine del colonialismo. Tali fabbriche di matrice imperialista erano per lo più specializzate nella produzione di legname e prodotti regionali. Le fotografie di Gosette Lubondo ritornano come in un viaggio onirico questi edifici ormai abbandonati dove la vegetazione ha preso il sopravvento e la natura si è gradualmente insediata impossessandosi delle fabbriche, dei muri, dei vecchi macchinari. Come per far rivivere in qualche modo lo spirito intimo di quei luoghi ormai dimenticati mette in scena sé stessa insieme a uomini che come presenze o apparizioni irreali _ gli ex-operai visti  in doppia- esposizione secondo la tecnica surrealista _ continuano a sorvegliare tali edifici sopraffatti dalla natura indomita che ha continuato a proliferare intorno.  Là si confrontano l’utopia mai realizzata di una possibile resurrezione per il paese legata a quelle industrie e il canto elegiaco immerso nella natura e colmo di nostalgia di fronte al fallimento di quel sogno. Le figure sono catturate in pose statiche sedute, immobili tra le mura della fabbrica oppure mentre si muovono come ombre tra gli alberi e i ruderi del’edificio circondati da una vegetazione selvaggia e lussureggiante. In tale dicotomia irrisolta tra apparizione e realtà, presenza e assenza. 

Felicity Hammond, “Autonomous Body”


La carcassa di un auto compressa saldata a tre pannelli verticali diviene l’ossatura di un collage dove sullo sfondo compaiono in un’immagine digitale  volutamente sfuocata cave di litio e miniere di carbone sulla quale si sovrappone una ragnatela di schegge evocando tra le linee la memoria di un incidente stradale. In “Autonomous body” l’intimo e il collettivo si confondono in questo collage che da un lato ci parla dell’ultima frontiera dell’industria automobilistica dal carbone del passato al litio delle auto elettriche di oggi basate sull’IA per la produzione dei veicoli. Da un altro punto di vista, l’installazione rimanda al legame profondo dell’artista cresciuta nella zona di Birmingham con l’industria automobilistica per la quale il padre lavorava, fino ad evocare l’incidente nel quale perse la vita un suo caro amico.  Nell’assemblaggio complesso denso di significati leggibili nell’opera della Hammond troviamo il passaggio dall’auto-motive simbolo dell’industrializzazione del ‘900_ gli stessi ingranaggi dei cerchi in lega decorati con pattern a idro-pittura esposti _  alle nuove frontiere dell’industria automobilistica che si confronta con automatizzazione  dell’IA e l’auto a guida autonoma.  Tale, per Hammond, diviene anche la metafora della fotografia digitale:  una macchina  che genera infinite immagini oltre il controllo del soggetto e di cui l’incidente automobilistico rappresenterebbe  la frontiera ultima dell’alienazione dell’uomo dalla natura.  Lei, come gli altri giovani artisti esposti al Mast, ancora un volta evocano, dall’intimo al collettivo, alcuni paradossi del mondo attuale tra l’illimitato avanzamento tecnologico e le derive prodotte dal medesimo, tra immigrazione e utopia di una società globale, sempre e comunque in un dialogo aperto tra il prossimo a-venire e , un ritorno necessario  alle radici del passato.