Un vero e
proprio alfabeto visivo incentrato sui temi dell’industria, della tecnologia e
del lavoro scandisce l’esposizione di più di duecento opere di fotografi
italiani e internazionali di rilievo attualmente alla fondazione Mast di
Bologna. Sono le tante lettere sparse di un alfabeto che per libere associazioni di pensiero riconnette
l’inizio dell’età industriale con l’ultima fase della nostra post-modernità
digitale quasi come un modo per far convergere uno sguardo lontano da noi che
getta le basi dell’età moderna a uno più prossimo che ne segue le conseguenze
anche distruttive della sua ultima evoluzione. Tale alfabeto per immagini,
allora, è un modo per pensare il mondo visivamente, con tutti i sensi, come un vedere
che diventa anche un riflettere in senso lato facendo confluire nella diversità
dei punti di vista le contraddizioni e i conflitti che ci contraddistinguono. Come
si tengono insieme, infatti, opposti inconciliabili se la lettera A sta per
“Abandoned” ma anche per “Architecture” e l’ultima lettera W comprende la
parola “Waste” (rifiuti) ma anche “Wealth”
o “Water”,ovvero la ricchezza e l’acqua che costituisce una fonte inestimabile
oggi.
La fotografia
nasce nell’era della meccanizzazione alla fine del XIX secolo, figlia della
rivoluzione industriale e dei processi che utilizzando la luce convertono nella
camera oscura un negativo in pura impronta fotografica . Evolve di pari passo
al progresso tecnologico dalla semplice copia di realtà, dall’immagine
analogica a quella digitale di oggi. Nella Collezione ci si sposta dalla
fotografia documentaria di inizio ventesimo secolo in America con artisti come
Lewis Hine, Dorothea Lange o sul fronte europeo Robert Doisneau all’arte concettuale del
ventunesimo secolo, alla fotografie di suggestione surrealista o iperrealista
più recenti, e ancora dall’immagine in bianco e nero a quella digitale fino
alle stampe in 3D di oggi.
Sul versante
tematico alla celebrazione di un mondo tecnologico e industriale a partire
dalla fine del XIX secolo si contrappongono le sue evoluzioni/involuzioni
attuali. Dominante resta il filone dell’umano soprattutto nell’emergenza
sociale legata alle classi proletarie
nella loro progressiva presa di consapevolezza politica. Dell’inizio del
ventesimo secolo sono i ritratti di lavoratori o individui sfruttati o
sottomessi dal sistema di produzione a catena, e ancora i disoccupati per
strada, i bambini sfruttati nelle fabbriche,gli individui in cerca di lavoro e,
in fotografie più recenti, i dipendenti in sistemi automatizzati, i migranti e
i profughi di oggi ai margini del processo di globalizzazione. Le fotografie
della Collezione scorrono dai cupi paesaggi dell’industria pesante dell’inizio
ventesimo secolo_ la fotografia celebrativa di quella prima modernità
tecnologica_ alle surrealiste visioni degli impianti high-tech ultramoderni di
oggi, alle proiezioni, infine, di virtuali
metropoli del futuro. Alcune visioni di siti industriali in disuso non
possono non rinviarci al tema dell’individualismo e dell’indifferenza umana
soggiacente tale società
post-industriale. E’ evocata, infine, l’emergenza ambientale nei cambiamenti
irreversibili, spesso distruttivi prodotti dallo sfruttamento incondizionato
delle risorse del nostro pianeta.
Luoghi della post-modernità
John Sven, “Buchi neri” (2019)
Viaggia
attraverso la Germania orientale nel 2019 incrociando alcuni di quei siti disertati
o edifici in disuso della precedente repubblica socialista sovietica. Fotografa
centri di produzione dismessi, qualche volta alte cancellate chiuse nelle
campagna gelide e innevate intorno. Linee ferroviarie incidono solchi bianchi e
profondi su strade ferrate ricoperte di bianco lucore. Fotografa scheletri di
edifici svuotati di cui restano le mura portanti esterne, impianti sportivi
abbandonati. La frattura e la battuta d’arresto tra due metà inesatte, tra due
parti spezzate di una storia collettiva che nonostante il“muro” abbattuto
fatica a ricomporsi. Quello che lui chiama “buchi neri” di una storia sommersa,
a tratti ancora disconnessa. Tali non-luoghi dall’atmosfera simbolica e
immersiva appaiono investiti di un filtro di luce opalescente, quasi surreale.
Gabriele Basilico,
“Milano” (1978)
Una geometria di
architetture solide, estranianti, viste nella purezza di luci e ombre si
staglia a distanza in linee nette e incisive in questo ritratto di fabbriche in
bianco e nero. Su quelle un manifesto
incollato di gare d’auto acrobatiche rompe come uno schermo percettivo la
piattezza dell’insieme per sottendere a un altro livello di realtà sensibile.
Un uomo cammina in tale immobilità
sospesa come dovesse attraversare quello specchio, ricongiungere l’immagine a
una memoria precedente, riconnettersi a quel tempo altro, nello spazio
metafisico di una visione.
Frank Thiel : “città 7/12 Berlin” (2000)
Postdamer Platz
a Berlino nel 2000 è ancora un gigantesco cantiere a cielo aperto lasciato al
gioco di diversi architetti internazionali. Lo spazio non sono più mura,
schermi, barriere occludenti ma un rapido susseguirsi di materiali nel processo
ininterrotto di demolizione e ricostruzione. Uno spazio vuoto si apre sulla
piazza enorme al centro della capitale occupato da gru, ammasso di detriti e
opere in costruzione in un cantiere
aperto dove nuovi grattacieli in vetro si sollevano scintillanti contro il cielo
dal giorno alla notte trasmutandone l’intrinseca natura. “Remake Berlin” è una
panoramica su questo immenso svuotamento del luogo e del tempo, nel mutare del
volto e dell’anima di una città. Le nuove maschere architettoniche si
ergono a occultare una storia fatta di buchi neri sommersi per gettarsi a
capofitto agli albori del nuovo millennio. La storia del XX secolo della capitale
tedesca segnata da bombardamenti e stermini durante la seconda guerra mondiale
emerge qui palesemente su questa piazza come una ferita messa a nudo di edifici
rasi al suolo e ricostruiti per essere poi ricoperta dalle nuove architetture
avveniristiche all’alba della nuova era.
Luigi Ghirri, “Il profilo delle nuvole”( 1985)
Vi sono forme
architettoniche nitide, pure e scandite da linee prospettiche provenienti dalla
tradizione pittorica: una chiesa bianca, la sua netta facciata, il timpano
sopra la porta, la sua coloritura azzurro-marmorea. Dall’altro lato
dell’immagine vi sono fabbriche sullo sfondo; due strette ciminiere dai motivi
circolari bianchi e rossi si ergono alte verso il cielo senza rottura visiva nonostante
l’apparente contrasto. Al contrario, una sorta di armonia paradossale ingloba e
permette di ricomprendere ogni elemento del paesaggio urbano entro questo cielo
basso e denso di nuvole_ il profilo azzurrognolo all’orizzonte- che come una
cupola bassa e densa scende a uniformare tutta la veduta d’insieme. Ancora una
volta in Ghirri il luogo fisico trasla per diventare luogo illusorio, “non-luogo” ovvero “paesaggio di immemore
memoria”nel quale si getta a capofitto la sua visione. Ci riporta indietro
fuori dal tempo ordinario in un viaggio quasi alla ricerca di quell’immagine
originaria che paradossalmente ricostruisce l’integrità dell’essere.
Hiro, “ Stazione di Skinjuko, Tokyo”(1962)
Porte a
vetro inquadrate dall’esterno nei treni sotterranei
di Tokyo si popolano di esseri umani compressi e affollati contro essi. Uno
sguardo sulla vita_ ogni volto singolare e unico_ irrompe contro la costrizione gli spazi,l’affollamento
dei treni, il passaggio veloce degli individui. Negli scorci urbani nebulosi e
frenetici di Tokyo, istantanee di volti appaiono come folgorazioni improvvise
illuminate nei tunnel sotterranei delle metro. Prigionieri dietro quei densi
pannelli di vetro. La bellezza irrompe tra una folla anonima e incolore.
II. People: bambini al lavoro, donne in
fabbrica, migranti
Lewis Hine
(1907)
Bambine dentro le fabbriche a stretto contatto
con le macchine di un cotonificio in Indiana all’inizio del ‘900 nelle
fotografie di Lewis Hine. Sono illuminate nella folgorazione estetica di un
istante eppure già sottomesse al processo di produzione a catena, private del
volto sognante e spensierato dell’infanzia o del suo sguardo magico e incantato
sul mondo. Disincantate già nella gravità del lavoro, nella fatica
dell’esistenza.
Ancora scorrendo
tra i ritratti nell’alfabeto visivo del Mast troviamo i primi piani sui
“minatori gallesi” di Robert Frank (1953). Sono i volti di uomini anneriti dal
carbone dell’estrazione_ l’ultima sigaretta prima di scendere in miniera_ gli
occhi vivi, la spossatezza dei corpi piegati alla fatica quotidiana. La loro umanità riecheggia in rari scorci
espressivi contro l’alienazione quotidiana del duro lavoro. Costantemente nella
galleria è questo passaggio tra i “cityscapes” e “human portraits”, tra i
paesaggi industriali e quelli umani emersi a stretto contatto con i medesimi
nella costante dialettica tra sfruttamento e dignità del lavoro, tra liberà e
alienazione dell’individuo.
Brian Griffin ,
addetta alla fonderia (2013)
Ultra-realista, ultra-presente nella saturazione dei colori e nella resa ingigantita delle figure Griffith rappresenta con ironia queste donne addette industriali nelle fabbriche tedesche. Sono figure plastiche enormi, esasperate nella loro presenza; la prima fuochista appare plasmata nell’acciaio a immagine della fonderia nella quale lavora, la seconda ha mani colanti di petrolio luccicanti nell’effetto pittorico pop e saturante. Sono viste all’interno di un processo di industrializzazione senza volto, disumanizzate come parte di un meccanismo che appropria l’individuo con riferimento al real socialismo sovietico, ma anche esaltate ambiguamente nella loro plasticità come icone femminili pop, ingigantite e post-umane.
Christobal
Olivares, “Migranti”, (2017)
I migranti di
oggi e di ieri ritornano come tema complementare a quello dell’industria a
partire dall’età moderna. Dalle valigie di cartone legate con un laccio
per i primi migranti europei di inizio XX
secolo a questi contemporanei volti di profughi, esuli in fuga dalla guerra,
dalla povertà o dall’indigenza nei loro paesi d’origine. Spesso sono gli individui
anonimi profughi nel Mediterraneo o rigettati al margini del sistema capitalista
globale. Compaiono qui di profilo nel loro anonimato e invisibilità come i
tanti dispersi in mare nell’attraversamento
verso l’Europa. Parlano a nome dei molti perduti nelle traversate o giunti in
Occidente nei viaggi della disperazione o della speranza lasciando la
propria terra. Sono l’ultimo volto della disumanizzazione prodotta da un
sistema economico globale con i suoi varchi di ricchezza e povertà, solidarietà
e disperazione.
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