mercoledì 11 giugno 2014

da Axel Hütte, “fantasmi e realtà” Retrospettiva, ( Fondazione fotografia, Modena)










La contemplazione silenziosa d'una natura estraniata d'ogni presenza umana si impone attraverso lo sguardo apparentemente neutrale di Axel Hutte  in visioni o squarci della medesima guidando lo spettatore in un passaggio costante tra il reale e la sua trasfigurazione poetica. Differenti serie si alternano, dalle atmosfere rarefatte e nebulose dei paesaggi alpini di cui volutamente fumi e vapori confondono lo sguardo, alle vette innevate sovrastate di nebbie al confine tra Germania, Austria e Italia o, ancora, agli scorci dell’Appennino modenese. Seguono le immagini degli sterminati ghiacciai artici, i riflessi d’acqua vibranti dei grandi fiumi come il Rio Negro, le foreste equatoriali, i deserti ghiacciati e ancora gli interni delle grotte carsiche e la loro sedimentazione rocciosa negli Stati Uniti.

Di fronte a una natura svuotata d’ogni presenza umana percepita come sublime e smisurata, aprendo a un infinito di bellezza e solitudine attraverso la sua contemplazione silenziosa, lo sguardo fotografico amplifica e trasforma il reale, plasma e configura uno materia prima ritrovata nel suo stadio originario e incontaminato. Lo scorcio o il dettaglio vengono sottoposti ad alteranti punti di vista, esposti all’incidenza irradiante della luce o all’intrusione perturbante delle nebbie, degli agenti atmosferici o ad altri effetti distorcenti alla percezione. La visione fotografica non solo registra ma crea, trasforma e plasma, altera o precorre il reale in immagine mentale, illusione onirica o suggestione poetica, attraverso la mediazione di una espansione della coscienza creatrice, d’una messa in immagine fotografica sola in grado di precorrere la visione e ricrearla in pure sembianze poetiche.



“Water Reflections” (Venezuela 2007)

La grande espansione del verde, agata, smeraldo o malachite d’acqua ascensionale attraverso questi riflessi liquidi nella visione della foresta, del suolo coperto di sassi e terra radicati in grandi tronchi secolari che si impongono e si elevano verso l’alto. Foresta pluviale, riflessi d’un paesaggio del sogno , d’un flusso o vortice d’acqua che si eleva, diparte, dalla melma fangosa del sottosuolo, da una palude baluginante di scintille luminose; E' questa grande espansione acquatica vista al contrario simile a un vortice che sale dalla selva verso il cielo portando l’acqua a fluire in un movimento di ispirazione verso l’alto. La foresta diviene un scintillio di punti luminosi, un’impressione al rifrangere della luce attraverso le sue fronde, simile a una veduta impressionista di ninfee galleggianti sulle acque indolenti degli stagni nella pittura di Monet. Anche il cielo appare completamente ricoperto da questo vortice acquatico d’un verde intenso portato, aspirato verso l’alto fino a occupare l’intero spazio del visibile. Riflessi d’acqua, lucido rifrangersi di superfici brillanti, giada, oro o smeraldo d’un tappetto traslucido e punti e tracce tendenti verso l’alto mentre i grandi tronchi secolari restano immersi nella terra, in espansione luminosa dei verdi e degli oro.





































Dalla serie “Mountains” e "New Mountains", (Austria, Svizzera, 2011-2013)


Cime di mondi sommersi, appena visibili, compaiono da rocciose vette alpine della durezza della pietra, d’una pietra millenaria, calcarea, granitica digradante verso il basso al margine dell’immagine che è qui completamente lasciata all’inondazione o all’afflato di nebbia: materia densa e nebulosa, della densità d’una sostanza grigia, espansa e rarefatta insieme, imponderabile imponendosi tuttavia, presente a massa, a nugolo, a densità intangibile, implacabile fino a espandersi per offuscare i sensi, l’immaginazione lasciando solo qualche rara impronta di luminosità retrostante. Là a sommergere come una cascata, una perturbazione o un’intrusione d’ordine cosmico, inspiegabile, disturbando la percezione netta, chiara e nitida delle cose fino a produrre uno smarrimento dei sensi, una patina coprente alla realtà, insidiosa infiltrandosi tra le vette e le rocce delle montagne. Nelle loro interne scavature o corrosioni le rocce appaiono ricoperte d'una cascata di materia gassosa, di nebbia cosmica oltre i limiti d’una visione tutta umana per aprire al terrore e al sublime di forze incontenibili della natura.
Attraverso lo specchio del reale la nebbia si fa volutamente tramite a tale slittamento onirico. Le visioni di cime alpine al confine con l’Austria appaiono ora grigie e bianche leggermente ricoperte di questa condensazione leggera, sulla quale si distinguono ancora le abetaie innevate nell’atmosfera immobile del paesaggio, ora lo stesso è completamente ricoperto dalla discesa implacabile, lenta e divorante d'una massa nebbiosa, coprente e occludente all’ immaginazione. Un fiume di lava o di materia evaporata e condensata si deposita come una patina densa e grigiastra sul paesaggio per impedire allo sguardo di attraversare, all'oggetto d’essere scorto, alla mente cosciente di andare oltre quella cortina di nebbia e neve condensata. Eppure, in virtù di tale invisibilità o schermo coprente altre forme affiorano come effimere impronte, giochi di espansione o emergenza della luce, qualcosa che fluisce o confluisce malgrado sé stesso dalla mente di chi guarda, e aleggia indistinto forse solo per essere percepito e catturato, catalizzato e trasformato da un irrisorio piccolo io individuale per dare nuove immagini al mondo, e nuova vita a quella materia sedimentata e spenta, e parole d'una lingua nuova a partire da una minuscola evenienza.


In Totenkopf la vetta è una strada che sale verso l’alto, una scalinata aperta verso il cielo, un graduale passaggio verso un altro livello di comprensione del vivente,
un dirupo scosceso che si eleva aprendosi al contrario contro la forza di gravità occludente del basso, contro l’ossatura interna delle rocce, contro le venature delle pietre e le interne circonduzioni dei suoi arti e delle sue arterie, delle sue incisioni e iscrizioni profonde. Sale verso l'alto al progressivo contatto con il biancore limpido della neve fino al rendere l’immagine della montagna doppia e ancora intrisa di cerchi e effusioni brumose nel suo tendere all’infinito oltre la neve. In Raucheck .la massa densa e plasmatica, solidificante e impenetrabile allo sguardo ha invaso ogni altra forma sulla vetta della montagna lasciando il paesaggio abbandonarsi all’infinità del suo moto sublime e perturbante di possibili affioramenti onirici.





“Underworld”, (USA, 2008)

Underworld: sotto-terra, sotto-mondo, mondo di mezzo tra la terra e il cielo. L’interno d’una grotta scavata nella roccia diviene l’immagine d’una cavità sottomarina, una barriera corallina tappezzata di lapislazzuli, coralli, minuscoli diademi assimilandosi a parete di pietruzze incandescenti, rosso acceso, rosato o bianco viste nel contro-luce d’ombra dall’interno buio, illuminate a giorno, ritagliate in questa visione da sogno. Sottomondo o mondo di mezzo rischiarato d’un tratto, la luce endogena arriva direttamente da dentro la pietra, questa pietra che s’anima come fosse in sé regno del fuoco apparso dall’oltre-mondo del nero. La sua barriera di cristalli di roccia si dispiega in campi di colore digradanti e luminosi, caldi e luminescenti sulla sinistra, rosso vibrazionali di fuoco e roccia sulla destra, in espansione gioiosa d’un bagliore a macchia luminescente al centro, poi d’un verde smeraldo che come onda vitale propaga luce verso il rame-argenteo dello stagno sottostante celato tra i massi e i dirupi del sottosuolo. Echeggia di risonanze e voci, di possibili affioramenti di forme e segni, la visione d’un mondo apparso dal sottosuolo rifrangendosi in falde acquifere sotterranee, celato tra le oscurità imperanti dell’oltre-nero come un “regno di mezzo” tra la terra e il cielo. Simile sembrerebbe a una montagna purgatoriale quale passaggio obbligato verso l’alto una volta usciti dalla cavità infernale. Dall’antro oscuro della perdizione, da quell’oscurità che è in noi alle origini, da un oltretomba immerso nel nero infernale un palazzo luminoso appare tra le rocce nel suo limite esterno di parete o barriera, irradiazione della trascendenza del bianco, del verde argenteo-stagno depositato tra le rocce e del fuoco sacro tra quelle illuminato. Come per caso prende forma attraverso le tenebre nel riflesso d’uno sguardo.


Portrait 19 “Water Reflections”, (1998)





Sé stesso minuscolo seduto su un tronco dimezzato galleggia sull’acqua, su una roccia andando alla deriva; sé stesso minuscola, irrisoria presenza contro l’afflato cosmico dell’acqua attraverso i suoi infiniti punti luminosi . Teatro d’acqua, l’attore in scena è immerso in un effluvio di riflessi smeraldo-elettrici in una distesa d’acqua-schermo coprente verde e nera. Nero puntigliato d’una miriade di impulsi luminosi, di linee e tratti brillanti del firmamento. L’attore è in scena, luminescente là in mezzo, immedesimato, perduto o a metà rapito dall’evento scenico nel suo esserci, teatrale in unione con lo spazio, nel momento performativo del sé, d’un sé prima minuscolo, sfuocato, invisibile ora espanso in una grande presenza. Sullo sfondo appare come un profilo ingigantito delineandosi nel controluce d’ombra della figura alle sue spalle. E’ sguardo dall’alto includendo tutto il visibile, filmandosi filmato, come un grande occhio esterno puntato sul suo interno apparire su scena.





Rio Negro, (1998)

Foresta pluviale, la distesa d’alberi d’una laguna d’acqua occupa tutta l’immagine: siamo dentro la foresta, tra gli alberi, attraverso le fronde in mille arti espanse aprendoci un varco tra le foglie, serpeggiando tra tronchi e a stretto contatto con il sentore della terra. Sentiamo l’esalazione delle selva, la natura nella totalità di un grande respiro cosmico, all’ennesima potenza nella sua propria sublimazione ma vista attraverso uno sguardo estraniante dall’interno della corteccia, delle foglie, dei tronchi resi univocamente presenti al centro senza altra misura di riferimento esterna. Siamo perduti nella contemplazione silenziosa della foresta da dentro la materia organica delle sue foglie. Lo sguardo dello spettatore fluttua dentro questo lago lucido di acqua e di fronde, dentro questo sogno di vegetazione impregnata d’acqua, tra gli spiragli di luce aperti, tra le foglie svolazzanti come forme eteree, d’aria, ninfee, macchie di colore rosso, ocra, terra, immedesimandosi da dentro la selva intrisa di pioggia, infiltrata di luce tra le fronde.

Senti le corse e le grida dell’infanzia, gioiosa, di bambini dentro quella foresta irradiata di luce vista a distanza attraverso i riflessi d’una camera mobile. Attraverso le acqua d’un lago vedi la gioia di forme in movimento, assisti alle fluttuazioni d’uno sguardo inseguendo, tracciando il proprio filo poetico attraverso le cose e, insieme, nello slittamento costante del suo punto di vista filmando oltre la città, ai limiti dello spazio abitato.






“Glaciers de Bossons”; (Francia, 1997)

Ghiacciai sui quali puoi camminare come su una distesa lucida di materia gelata dissestata e ricoperta dei suoi interni dossi, cumuli e insenature. E’ solo e ovunque nell’immagine questa strada avallata di ghiacci non uniforme e piatta no, presentandosi invece come una somma di pietre e piedi che l’hanno attraversata lasciando sul loro percorso i loro solchi e aperture in assenza d’ogni presenza umana. Eppure ci sono queste tracce imponenti, incavi e insenature talmente presenti nell’immagine, ci sono impronte indelebili, marchiate come fuoco su ghiaccio, segni forse di forze incontenibili della natura di cui la terra si rende essa stessa preda; non solo tracce di cammini e passaggi ma anche lasciti di lotte antecedenti, di scontri violenti, e incisioni di forze oscure, come se questo ghiaccio parlasse nella sua interna tessitura e fosse stato lì teatro d’uno scontro, d’una lotta, d’una violenta prevaricazione, dell’imporsi di moti soggettivi a leggi superiori dell’evidenza dell’universale. E’ visto così, pervasivamente occupando l’intero spazio dell’immagine, grigio argenteo ovunque sull’intera superficie a un passo dal cielo, dall’orizzonte, strato su strato ovunque densificato in interni slittamenti e insenature.


Bayerischer Wald, (Germania)

Si entra attraverso una foresta oscura, simile a una spaventosa selva dantesca e si procede avanzando attraverso quella distesa di tronchi e liane, dalle linee verticali dei tronchi che affondano su un suolo disomogeneo alle linee incidenti , agli incisi di liane frapponendosi attraverso il paesaggio boschivo una volta valicato il bordo esterno della foresta. Eppure la luce passa attraverso, infiltra e crea questo varco aperto, questo spiraglio luminoso che partendo dal basso appare delineare come una scia, un tracciato semi-nascosto, a metà cancellato o non visto, tuttavia inequivocabilmente là come una sorta di fluire necessario, della luce endogena all’oggetto o allo spirito di vita che abita quel luogo , luce che viene dall’alto, delle profondità dell’anima universale e vibra attraverso tutti i gradi della materia sulla terra fino ad aprirsi in tale passaggio luminoso tra i tronchi; in alto la nebbia resta diffusa, effusa in circonduzioni lievi attraverso la selva. Quella luce aprendo un cammino trasforma e sposta l’immagine nel luogo del segreto, in un regno misterioso attendendo dall’altro lato una volta compiuto l’attraversamento.






“Glaciers”, (Norvegia, 2000)

Qui il paesaggio è ampio, limpido, netto allo sguardo tuttavia arso, completamente raso al suolo dal gelo, mentre sulle lastre di ghiaccio immobili la luce scivola conducendo a un diffuso bagliore su una strada libera che procede all’infinito oltre i limiti del nostro sguardo. Volutamente svuotato d’ogni presenza umana, la strada o il paesaggio immobile di ghiaccio bluastro si apre come un cerchio ellittico disegnandosi in una strana circonferenza sferica, non-finita oltre la nostra possibilità di comprensione o visione. La bianchezza immobile e atona della distesa di lava gelata, poi la cortina immobile e grigia del cielo atono ricongiungendosi all'orizzonte; solo qualche riflesso bluastro argenteo e metallico vibra ancora leggermente in primo piano. Eppure lo sguardo è sereno, aperto e calmo, conduce a un’idea di stabilità, a una natura percepita come immobile e lieve, non aggredente ma che riassorbe nella sua immensità, nei suoi silenzi, nella sua eternità fuori dal tempo e dalla storia.





Nessun commento:

Posta un commento