martedì 28 gennaio 2014

Da Forsythe a Inger, visioni coreografiche a confronto
























“Workwithinwork” , di William Forsythe, portato recentemente in scena in Italia e in tournee' a Ravenna da Aterballetto appare, dal titolo stesso, come un “lavoro dentro il lavoro”, lavoro che sottilmente sposta le linee portanti degli antecedenti da dentro una partitura classicamente scritta, tecnicamente costruita nella sua vicinanza al codice-balletto del quale tuttavia giunge a far evolvere, o meglio a far divergere alcune linee essenziali di composizione coreografica. Ne manipola gli elementi dall’interno della cornice d'un obbligato riferimento classico, dall’interno del frame esistente, secondo un modo di percepire il movimento risolutamente contemporaneo: ipercinetico nei suoi slanci improvvisi in un vorticare di movimento, fluidissimo nel suo continuum di legati, incisivo infine perché costruito su un tempo musicale imprescindibile. Da dentro il lavoro sottilmente Forsythe scompone, scompagina i suoi canoni compositivi affidandosi alle logiche interne dell’”essere in movimento”, d’un “pensiero in movimento” su un corpo universalmente dato, astrattamente e globalmente visto. Tale corpo, dunque, in quanto portato all’astrazione della sua forma fisica e cinetica, diviene modello di transizione universale da un stadio di movimento a un altro, da una soglia energetica a un’altra, immaginabile nello spazio del suo muoversi ora fluido, continuo, ora stilizzato, spezzato o interrotto. “ Quasi fosse mosso da un’interna visione” del coreografo, quasi fosse visto in una dilatazione dello spazio e disegnato su una tela mentale virtualmente espandendosi all’infinito forse nella sua reale impossibilità ad essere tale.


Come scrive William Forsythe1 : “La coreografia richiama l’azione, un’azione seguita da un’altra come una serie di regole sintattiche governate da eccezioni. Le molteplici incarnazioni della coreografia non esistono in un singolo cammino di “forma-pensiero”, persistono, tuttavia, nella speranza d’essere senza poter durare”. Esse testimoniano della plasticità e della ricchezza di un corpo preso nello snodarsi intuitivo d’un movimento come “forma di pensiero” tangibile, fisico e quasi innato, e, ancora, preso nella sua abilità a ripensare se stesso costantemente divenendo altro sull’onda delle sue virtuali potenzialità all’agire alla sola condizione che accetti di allontanarsi dalle proprie posizioni di certezza, dal proprio sapere d’un movimento acquisito.


“L’oggetto coreografico” è pensato da Forsythe come un modello autonomo d’espressione distaccato dalla sua incarnazione in un corpo fisico reale divenendo un modo per astrarre tale “pensiero fisico” che è la coreografia dal suo più diretto manifestarsi o incarnarsi che è il corpo. Vuole essere un modo per astrarre, per rivelare i principi organizzativi della coreografia_ quelli che sottendono un corpo o un oggetto in movimento allo stesso modo delle leve che generano o inducono quel movimento all’origine_ per poi applicarli o trasporli su altre campi artistici come l’installazione o la performance.

“L’oggetto coreografico” sarebbe dunque questo “modello di transizione potenziale da uno stato all’altro immaginabile in ogni spazio”, come il passaggio che avverrebbe, mediato dalla percezione corporea, dal livello visivo a quello uditivo nell’esecuzione d’uno spartito musicale. Cosi’ “Workwithinwork” di Forsythe, sembra potersi ricongiungere a questo pensiero coreografico che vede il corpo come strumento dalle infinite potenzialità, come assetto fisico ed energetico nel quale si incarna attraverso la danza una certa visione o esperienza del “essere nel movimento” piuttosto che una reale presenza fisica abitata di carne e sangue su scena.


In questo senso “Workwithinwork” è concepito come un dispositivo coreografico autonomo con le sue dinamiche e le sue leve all’azione, i suoi slanci inattesi, plasticamente espandendosi, liberandosi in intere frasi melodiche per poi consumarsi in altrettante improvvise sospensioni, infine sempre ricettivo agli impulsi che gli vengono dallo spazio esterno nel suo configurarsi plasticamente in esso. Non è il corpo abitato di tanto teatro-danza contemporaneo, non è il corpo attraversato da liquidi e liquori di carne, fatto di carne e sangue, non è il corpo che traspira e soffre, suda e grida, non è il corpo animale o sessuato che vive nella materia ma è corpo figurale, iconico, svuotandosi d’una reale presenza, simulacro di sé stesso, è il corpo d’un pensiero coreografico incarnandosi attraverso la danza in un “physical thinking”2 , in un pensiero del movimento articolato da una precisa e complessa sintassi coreografica.






Nel processo, inevitabilmente, le logiche convenzionali della scrittura classica, del dettame del balletto si infrangono trascinandoci, sulle musiche di Luciano Berio, attraverso una serie di linee melodiche di danza, di traiettorie dai ritmi incalzanti, incisivi, imprescindibili nei duetti per violino che poi si interrompono all’improvviso arrestandosi in apici o punti di intervallo inattesi. La composizione musicale, ugualmente, si sposta costantemente dal continuo fluido del suono, alle sue vibrazioni interiori, l’eco risvegliato dal medesimo come quell’”entre” che scorre tra la partitura scritta dei singoli passi, infine al silenzio, all’inatteso, alle pause che ad esso si frappongono. Silenzi passano come questi luoghi d’assenza, intervalli d’essere e pause quasi oniriche su scena contro la forza cinetica, la concatenazione incalzante delle sequenze nei passaggi corali.

Il Silenzio, come scrive Gillo Dorfles “non è solo cessazione di rumore, del suono, d’ogni attività esplicita ma è, anche, presenza di qualcosa che non è definibile. Silenzio come pausa, come intervallo tra due suoni, pausa nella quale attingere ad ancora inespresse forze”. 3Gli intervalli, dunque, sono queste deviazioni e interruzioni d’un percorso tracciato che proprio in virtù di tale rottura si fanno propulsori d’una nuova carica inventiva, d’un nuovo potenziale espressivo trasformandone alla base il precedente dettame. I duetti sono abitati in questa alternanza tra slanci e pause interiori mentre punte e “tendus” si smussano in linee morbide e vorticanti intercalate da pause e interruzioni, poi di nuovo scorrono in un’onda fluida alternandosi a pause e saltelli codificati del classico.

Affascinanti linee continue e angoli smussati di nuove linee sono tracciate nel continuo del corpo in movimento, gesti ampi e avvolgenti di braccia e torsi accolgono, si espandono, si liberano su busti come curve guizzanti- come afferma una delle sue danzatrici “sorprendente quello che può far emergere un corpo”- intercalati da salti dai ritmi velocissimi di piedi qui fatti evolvere in rapidi passaggi dall' en dedans, all' en dehors.


Passi a due, duetti molteplici su scena si lanciano in questa corsa vertiginosa e fluida per poi arrestarsi all’improvviso e lasciar vedere i due o più danzatori uscire, allontanarsi dal palco, partire verso l’altrove. Improvvise pause, la scena si svuota, nuove disposizioni silenziose dei danzatori su una scacchiera virtualmente immaginata e altrettante improvvise riprese. Movimenti ondeggianti delle spalle e delle braccia trascinano progressivamente busti, bacini e posizioni statiche di piedi nel passaggio rapido tra en dedans, en dehors. Le braccia e le spalle si lanciano, saettano, volteggiano, le gambe dai loro passi statici seguono. Circolarità, plasticità dei corpi, movimenti rotatori facendo volgere la figura al loro ritmo, trascinandola nel loro tracciato plastico.Come afferma ancora una danzatrice di Forsythe:

“ E’ una lotta tra passi statici e, invece, urgenti, attacchi ritmici al movimento…Non c’è giusto o sbagliato ma diversi modi di muoversi, il mio corpo usato differentemente. Continuo ad aggiungere fino all’ultimo, fino alla versione definitiva. Con tutti i miei sensi cerco di divenire consapevole, di sentire ogni parte implicata nel movimento. Sorprendente quello che si puoi trovare, trarre da un corpo.” 4

Tracce lasciate, circolari, ruotanti o spiraliformi, una corrente fluida plasma traiettorie sul palco.









Sul fondale nero, sgombro ed essenziale d’una scena vista come cornice astratta al movimento il “lavoro dentro il lavoro” di Forsythe si delinea incentrandosi sulla forma di duetti che più tardi si moltiplicheranno in scene corali progressivamente raddoppiando il numero dei danzatori; sempre, nel processo di tenue deriva, di smantellamento da dentro la cornice la scrittura scivola dall’apparente neo-classicismo del codice allo scavarsi d’una libertà e necessità espressiva ritrovata a partire dal medesimo. Si passa così dalla stilizzazione classica di passi e piedi a punte, di tendus e jetées, alla fluidità di un legato che trascina, spalle, braccia e busto facendosi linee portanti di tale sottile stravolgimento, da sequenze rapide e iper-tecniche di passi disciplinati sulle punte a momenti di stasi, irreale, onirica quasi, dove è il dialogo silenzioso tra i corpi a imporsi. 

Tre dimensioni allora costruiscono l’assoluta astrazione del lavoro: la linea ritmica della scrittura musicale che si distende e s’arresta nel tempo in improvvise cesure, lo spazio che permette fisicamente a tale durata di prendere forma visibilmente nella danza, infine il modo in cui la partitura coreografica è concepita nell’insieme, dall’esterno, in una logica rigorosa ed essenziale, estremamente chiara nelle entrate e nelle uscite, nei duetti alternati ai gruppi, nelle pause e nelle riprese dei danzatori, nelle interruzioni iscritte sulla musica, nelle linee disegnate sulle spazio o nelle direzioni scelte, in definitiva nell’estremo rigore formale con cui la composizione si offre visualmente nella sua interna struttura al pubblico.











 "Rain Dogs”, coreografia di Johan Inger, musiche di Tom Waits





“Cani sciolti si inseguono, combattono e si seducono attraverso una coreografia di passi essenziali, asciutti e chiarissimi, con humor dal sapore surrealista”.

Fumo d’una metropoli nebbiosa di notte, forse d’ispirazione newyorchese, dal sentore d’alcol e di locali fumosi, echeggianti di blues fino alle prime luci dell’alba sullo sfondo di musiche seducenti delle sonorità sperimentali, elettriche, ora euforiche ora venate di malinconiche tonalità nel jazz-blues di Tom Waits. 

Gesti ironici, dissacranti d’una coreografia di gruppo gridano alla ricerca di libertà, dal fondo d’un atmosfera surreale di nebbioso smarrimento all’invocazione d’una disperante leggerezza, d’una ironica affermazione di sé. Dalla verticale formata dai danzatori è il gioco di rompere le linee, fare un passo indietro o in avanti, gettarsi fuori, a lato, uscire dalla fila, rotolarsi a terra, disegnarsi un proprio frammento di spazio, il piccolo infinito d’uno spazio rinchiuso in un gesto. 

Cercare una propria libertà espressiva, poi tornare sulla linea, coinvolgere gli altri nel gioco, ridere come folli, gettarsi fuori insieme agli altri. Buttarsi al suolo, rotolare a terra e tornare su in piedi ancora in un salto, mani e braccia invocando apertamente il gesto teatrale, sovversivo d’apertura o di dissacrazione verso la danza stessa: rincorse, rotolate, cadute, afferrare, arraffare, appropriare con movimenti di mani, "fare il verso a” con ondulazioni di braccia e bacino, e spalle e gomiti sollevati per cercare la propria libertà verso l’alto. 

Nella notte , insinua la canzone dallo stesso titolo di Tom Waits , ”un orologio rotto”, l’odore forte e intenso del rum a inebriarci e fumo d’alcool a impregnare le pareti.
Tra le note cadute come pioggia abbiamo ballato e oscillato tutta la notte, era una notte carica di sogni, di sogni caduti come pioggia al suolo. Siamo cani randagi... abbiamo danzato lontano da tutte le luci della città, fuori dalla mente, al ritmo della musica. "Siamo cani randagi", sciolti, naufraghi in una notte senza porto, abbiamo ballato e ballato tutta la notte per non tornare più a casa.
















Pioggia di neve e pulviscoli bianchi, pioggia di coriandoli sullo sfondo d’una musica sensuale, corpi femminili si snodano qui nelle loro forme visibili di anche, natiche e negli ondeggiamenti del bacino. Oscillazioni di corpi sensualmente dati in forme sinuose scivolano sotto le vesti di seta aderenti e lucide in un’ambientazione notturna surreale dove si disegnano probabili incontri amorosi, scene di seduzione tra uomini e donne accennati in abbozzi di movimenti semplici e invitanti all’incontro.
 Come nel testo della canzone di Waits: “Salgono in pista, ballano il tango fino a notte fonda, si muovono esperti nei passi, ballano su quelle musiche di tango fino allo sfinimento, fino all’alba quasi e ancora quando la musica è finita, quasi per mettere da parte i loro incubi , per chiudendoli fuori, dietro, oltre la porta”.




Coriandoli tra i capelli volano dalle finestre, nell’aria dipingono come il loro argenteo scintillio nella notte ombre sulle panche o sulle pareti promettendogli che suoneranno tutta la notte per loro. 

Oscillano al suono della musica, si lasciano cullare dal fumo e dall’alcol, sussurrano frasi dolci all’orecchio, si crogiolano dondolandosi al ritmo degli ultimi blues. Si sfiorano, respirano il sentore, l’odore della pelle, il sudore scivola attraverso gli abiti, attraverso le mani, gocce d’acqua passano dall’uno all’altro. Ondeggiano, si baciano, le labbra si sfiorano, restano, s’arrestano, sono ancora stretti, assorti nell’ abbraccio quando la musica è finita.
















1 William Forsythe, “Choreographic Objects”, articolo on line su www.theforsythecompany.com
2 Ibid. Forsythe
3Cfr. Gillo Dorfles, Elogio della disarmonia, Garzanti, 1986, p.85
4 Workwithinawork, Intervista on line http://www.youtube.com/watch?v=9uMDC10EEaE

Nessun commento:

Posta un commento