Su una scena vuota le luci unicamente in monocromo rilucente,
puro, netto e assoluto a enfatizzare i
corpi e le diverse qualità di movimento, gli umori che li rivestono, le diverse
atmosfere o stati energetici che vengono ad abitarli in questa rilettura personalissima,
potentemente impregnata di influenze afro-contemporanee del più classico dei
balletti di Tchaikovsky, “Il lago dei cigni”:
ora il fondo rosso, esplosivo, luminoso d’un deserto come energia d’una
danza gioiosa, disinibita, totalmente ritmata su movenze africane che vengono
ad abitare queste parti corali all’origine codificate in punte, salti e
piroette multiple del balletto classico, ora i blu luminescenti, pervasivi,
malinconici fin quasi a toccare le tonalità oscuranti del nero per le parti in
duo o in assolo, le zone liriche e notturne del Lago, l’incontro tra cigno bianco e il principe, e, in questa
versione, tra il danzatore cigno nero e lo stesso Siegfrid prima dell’epilogo nel
tragico finale.
Originalissima, iconoclasta la versione di Swan Lake portata in scena dalla
danzatrice e coreografa sud-africana si pone sotto il segno della commistione,
dell’ibridazione, dell’innesto: tra tecnica classica dal virtuosismo conclamato
di cui le punte restano il simbolo più evidente all’apporto della
danza moderna e della tradizione africana; la commistione è, a un primo livello, tra cultura bianca e
nera in Sud Africa con tutte le implicazioni e i sotto-testi ideologici,
politici e sociali che questo include , l' ibridazione è ancora di generi, tra
maschile e femminile volutamente frammisti in corpi che ne smussano volutamente
le chiare determinazioni là dove amori lirici da libretto classicamente
idealizzati divengono duetti gay in
questo voluto abbattimento di barriere e categorie, di genere e identitarie come
d’ appartenenza o un preciso stile danzato secondo l’estetica originalissima e
nella visione post-moderna di Dada
Masilo.
Al di là del tentativo di costruire e insieme
sovvertire lo scheletro d’una storia d’amore
e morte idealizzata dal destino tragico di due personaggi in una serie di ruoli
stereotipati- principe, donna-cigno, cigno-nero assumendo le sue sembianze per l’effetto
di un sortilegio- quello che emerge nel lavoro della Masilo è l’ibridazione, la riappropriazione da
parte della coreografa dello scheletro dissecato del balletto classico passando
attraverso l’identità e la cultura sud-africane: contaminarlo, appropriarlo,
fondere perfettamente nel suo personalissimo stile gli slanci opposti della
sublimazione, della fuga verso l’alto, della tensione rigorosa del classico e il ritorno a un’energia
radicalmente terrestre, improntata su un dettame ritmico primario tanto che la commistione avviene in maniera
istintiva, spontanea, naturale, innata quanto il riflettersi della sua propria identità. Due componenti, in primo luogo lo studio, la formazione nel balletto classico e moderno, poi,
la liberazione nel processo del medesimo linguaggio, la riscoperta delle
proprie radici africane, riescono a coesistere o meglio a fusionare insieme
portate in qualche modo dalla corrente gioiosa
e istintiva della danza che da esse scaturisce. Da una parte il richiamo alla
terra, a una qualità di movimento molto più organica, istintiva, terrestre, ancorata al suolo come i talloni lo sono, ginocchia
piegate, anche oscillanti, braccia e fianchi che ondeggiano in aria al ritmo
della musica, e ancora questa energia
estremamente fusionale che scaturisce dal contatto con il suolo, che prende il
proprio slancio nei piedi a terra, nelle ginocchia flesse, nei movimenti del
bacino e delle anche, ritagliandosi in una forma implicitamente propria;
dall’altra l’elevazione del classico nelle sue punte che fuggono verso l’alto, nei
suoi voli e salti virtuosisticamente ripetuti, nella grazia sublimata di questa
danza aerea, leggera, dalle movenze eteree e dalla perfezione ineguagliabile
della sua imprescindibile maestria tecnica.
Nel parte danzata in assolo del cigno bianco la danzatrice-coreografa
ironicamente rifà una parte di variazione dell’adagio classico con meccanismo a
ripetizione a una velocità raddoppiata rispetto a quella originale aderendo tuttavia perfettamente al tempo
musicale, alla ritmica intrinseca della composizione di Tchaikovsky con totale
libertà, prendendola di contropiede quasi fuori da quella distanza intoccabile, da quel
rispetto monumentale che si instaura tra
coreografia e sinfonia classica per fare appello, quando necessario, ai
registri della danza popolare, di quella contemporanea o africana. Ginocchia flesse,
movimenti rotatori di braccia e sterno si alternano a passi codificati dell’
adagio o a posture dagli arti tesi tipiche del passo e del portamento del
balletto. Come riprendendo la sequenza
dell’adagio in un meccanismo a ripetizione essa viene fatta accelerare, rifatta
in un tempo molto più rapido, dunque in qualche modo ripetuta ironicamente,
sarcasticamente parodiata come se si giocasse con la medesima, con umorismo,
leggerezza, con la gioia implicita, universale d’una danza che si vuole vivente
della ripetizione differita, nella passione del trasmettere o rifare rendendo
proprio, con il piacere anche d’essere dentro la materia completamente aderendo
ad essa nel modo più credibile possibile, nella libertà che questa concede
misurata dalla distanza che separa storicamente e culturalmente un’estetica,
dunque uno stile, da un altro.
La ripetizione
dell’adagio rifatta in maniera personalissima e iconoclasta, accelera o
rallenta, sperimenta con una ritmica modificata rispetto a quella originale;
istintivamente si unisce alla musica senza sottomettersi al suo solo ordine
armonico; intercala con intrusioni, incursioni d’un altro linguaggio
cinestetico, gesti che si frappongono, poi influenze dalla componente più
intrinsecamente africana implicitamente iscritte in questi corpi e,ancora, citazioni o ritorni riveduti e corretti all’adagio classico
nella più totale libertà del linguaggio e, tuttavia, nel più grande rispetto e
ricerca d’una simbiosi possibile tra i diversi stili.
“Ogni volta che creo
una coreografia è una sfida; sono nata in una città multiraziale dove si doveva
andare d’accordo tra diversi, si tratta tuttavia solo di trovare il modo
giusto, questo ho portato nella mia danza. Le barriere sono fatte per essere
abbattute: rompere le barriere che divengono restrizioni, di quelle non abbiamo
bisogno. Amo distruggere gli stereotipi, strappare i luoghi comuni; anche se
non definirei militante la mia coreografia è chiaro che dietro la danza voglio
dire qualcosa, ma questo tema sociale non deve soffocare quello che essa
racconta”.
Perché dietro la facciata umoristica, leggera, disinibita o
libertaria di tale versione del “Lago dei Cigni” l’innesto originalissimo del
linguaggio, dello stile maturato dalla Masilo, nata a Soweto in un ghetto nero e disertato
di Johannesburg, è lo specchio
dell’identità complessa di un paese come il Sud-Africa oggi; riflette
l’identità di una società post-apartheid con i suoi conflitti esacerbati, i
suoi chiaro-scuri violenti, le sue interne lacerazioni tra una componente
bianca e una nera, tra una classe dominante, elitaria, improntata sulla
supremazia del denaro e la lotta per i diritti civili delle minoranze, da cui
gli eccessi di omofobia e violenza fatta alle donne, gli esiti devastanti
d’una piaga come l’aids in tale realtà . “Rompere le barriere culturali d’un
paese”, alludere attraverso la danza a problematiche reali d’una società, in
qualche modo coreografare con la nozione o la consapevolezza di tale complessa
identità significa, anche, nel lavoro e nello stile di Masilo cercare la via o
percorrere la strada d’una sintesi, d’un tentativo di risoluzione o di
dialogo nel conflitto tra le diverse
componenti, bianca e nera, maschile e
femminile, africana e occidentale, classica e afro-contemporanea. Implicitamente la sintesi si compie
in sé partendo dalla propria pelle,della propria identità sfaccettata e complessa che pur riesce a trovare unità, come questa danza una
implicita coerenza e bellezza da qualche parte, in qualche luogo.
Ancora più radicale la commistione, l’ibridità, il
superamento di barriere che divengono restrizioni politiche o sociali si
applica alla decostruzione dell’idea di genere in tale coreografia . Allo
scheletro della narrativa amorosa tradizionale si oppongono amori omosessuali,
cancellazioni di nette distinzioni tra i sessi, ibridità conclamata di questi
corpi fino a evocare la cancellazione delle opposizioni binarie, il
voluto metissage dei medesimi che
rinvia a quel corpo universale, femminile e maschile insieme, asessuale e
bisessuato incarnando in ultima analisi il corpo assoluto della danza. Dal “passo a due” dell’incontro amoroso tra
il cigno nero e il principe Siegfried dove il femminile e il maschile sono
incarnati daicorpi di due danzatori uomini rispettivamente in tutù nero e tuta
bianco su scena, a corpi di danzatori maschili apparendo transiti, trapassati, investiti
d’un femminile universale corpo poetico danzando in loro, al contrario a corpi
di danzatrici dal torso nudo, dai
capelli rasati e i seni quasi inesistenti mostrandosi estremamente mascolini
nel loro esporsi, infine a questi corpi coralmente liberati nel lirismo dell’ ultima
scena all’unisono eppure in singole parti improvvisate.
I torsi nudi e le ampie
tuniche nere sino ai piedi, i gesti sinuosi di braccia e torso, il rapimento
quasi estatico cui sono lasciati nel loro farsi portare dal flusso infinito e sinuoso
della danza si mostrano nella voluta
indistinzione tra danzatori e danzatrici, uomini e donne semplicemente come corpi
offerti, ceduti, esposti, totalmente donandosi al potere della danza, a questo grande corpo ibrido, universale risvegliato attraverso
e per mezzo loro.
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