Scavare la materia per scoprire una forma già là, pre-esistente,
sommersa,
lavorare sul togliere, sul tagliare, sull’estrarre o affondare,
mai sull'aggiungere, dare forma, affinare. Togliere il superfluo, strati su
strati per arrivare all'oggetto in sé dove l'atto di scavare rinvia
implicitamente alla terra, a un ritorno al suolo, all'impronta d'una matrice
generativa, generante o rigenerante per l’immaginazione nella sua messa in
spazio plastica d’altre possibilità sculturali.
La scultura si
vuole in Baselitz ritorno a un “grado zero” della medesima, simile a un de-stratificare, sfogliare, discendere in senso genealogico,
strato su strato, ciò che corrisponde, anche,
a decostruire le sovra-strutture dell’estetica occidentale fino a
toccare o raggiungere paradossalmente una sorta di “innocenza ritrovata” nel
fare artistico, (innocenza a posteriori prodotta a ritroso d’una cultura). Partire
dal gesto in presa diretta sul legno, gesto di “non-sapere” assoluto, non
premeditato né razionale, violento, primordiale, gesto in togliere che porta in
sé qualcosa di irriducibile dandosi in
primo luogo nel proprio potere di presenza
e di fascinazione, al di qua d’ogni preoccupazione formale o stilistica.
L'energia violenta implicata in tale atto, la brutalità
del legno nella sua realtà ordinaria,
una materia “bassa”, a portata di mano attaccata
direttamente dall'ascia o dalla segatrice;
lo stato d'urgenza, di necessità nell'approccio
sculturale,
l'intempestività del suo darsi in presa diretta su
tempo , contro il tempo, a contro-tempo sulla forma, in parte ridipinta,
ripresa o ridisegnata a tempera, acquarello o vernice, aggiunta di stoffa o
d'altri tessuti,
presa infine tra il desiderio di figurare e il ritorno
a una primordialità della materia _tronco-albero-legno_ in quanto forza
emergente, agente o generante dalla natura.
“ Le ragioni
dell'apparire formale della mia prima scultura arrivarono solo in seguito”
racconta l’artista tedesco. “ Avevo senza sosta, unicamente, l'impressione di
fare qualcosa come scavare. Scavo il suolo e trovo qualcosa. Utilizzo un'ascia
o una sega e non faccio che tagliare direttamente sul legno sculture alle quali
non posso nulla aggiungere, nulla sovrapporre come stessi lavorando sulla pietra. Malgrado ciò,
quando l'oggetto é là resta la sensazione netta d'averlo estratto dalla terra,
quasi esumato”. La scelta di lavorare a stretto contatto con il suolo, scavare
partendo da quello che é là, presente e sovraccarico di strati, significati e valori estetici matura con l’imporsi
del real-socialismo negli anni 1945-46 in Germania orientale come forma radicale di diffidenza o opposizione verso ogni imposizione
ideologica, impostura di potere, sistematizzazione estetica o politica d’ogni
discorso dominante.
“ Ho cominciato a scavare il suolo, meno curioso di guardare
il cielo che la terra e la sua interna oscurità, ossessionato dall'idea di fare
un buco nel sottosuolo, un tunnel che avrebbe portato dall'altra parte del
mondo, in Sud Africa forse”. Scolpire diventa, gettare questo ponte, arrivare
da qualche altra parte, compiere un cammino sotterraneo per ricongiungersi con
l’altro emisfero, l’altro lato della terra, un’altra idea di scultura, quella
trasmetta dall’arte africana per esempio. Di qui la metafora e insieme la
necessità di un rovesciamento , tale, volgere la figura dal basso verso l’alto,
dipingere alla rovescia, portare la forma finita a un’ inconsueta discordanza
di linee, spostarla in una voluta asimmetria o sproporzione nei tratti del viso
o del corpo , amputarne parti isolate, frammenti ingigantiti di piedi, busti o
teste, figurarne solo a metà apparizioni uscite dalla lotta tra l’energia e la materia.
“Modello per una scultura” esposto alla Biennale di
Venezia nel 1980 é la prima opera che apre il cammino verso “ la prefigurazione
d’una nuova immagine”. Né seduto né in piedi il personaggio sembra estrarsi dal
fondo del legno, intagliato direttamente in solchi, scavature, incisioni
marcate a partire da un blocco monolitico, massa anonima, squadrata dalla quale
cominciano a delinearsi alcune parti lasciate al non-finito: testa, bacino,
torso, un braccio che si eleva obliquamente in saluto. Solo alcune abbozzi di
linee riescono a emergere dalla materia grezza, ripresi, tracciati, rifatti a
vernice come in quei disegni preparatori dove si delineano approssimativamente segni
di matita su cui si andrà a tagliare o fissare una forma tranne che qui, ancora,
la sua sagoma definitiva non esiste e non si vede che questo primo apparire
volutamente lasciato allo stato dell’in-determinato.
Simile a uno scavare, manipolare, fare violenza in
qualche modo al blocco unico, farne solchi, pieghe, fossati, farne una lotta,
un faccia a faccia impulsivo,
farne una messa in luce, un dare alla luce, nella
metafora della terra-matrice _ esumare una testa, un bacino, un busto, un capo.
Le teste dello stesso periodo, ugualmente, sono
massicce, riprese a colpi o segnature di vernice blu o nera, nella cancellazione
voluta, inevitabile dei tratti o di parti dei tali, nello sforzo di discendere,
andare verso il basso, verso strati più antichi lasciando nel processo occhi o bocche distorte.
Sono queste teste dell’incisione, tagliate o staccate dal
resto del corpo, messe in rilievo, esse sole su un piedistallo, verticali o distese, rovesciate; teste della
discordanza interna tra le linee, dell’asimmetria voluta o del disaccordo tra il
fondo e la figura, una metà ancora
immersa nel blocco massiccio del legno e l’altra graffiata, incisa, riversa
fuori nell’atto scultoreo.
Le “figure in piedi” degli anni ottanta si ergono a
grandezza naturale di fronte ai nostri occhi quasi estratte dal suolo, in
questo contatto diretto con le forze basse, libidiche, prime della terra attingendo alle sue radici. Sono corpi-albero,
corteccia, corazza, sughero, o legno intagliato elevandosi in verticale, simili
alle sculture africane nate come statuette-emblemi medianti tra il mondo degli
umani e quello degli spiriti. Dalle profondità delle radici il supporto-tronco
si erge verso l’alto intagliato direttamente sull’unico del legno. Affila il busto
in estremità verticale, ora rigonfia la
zona del ventre disegnata in circolo come ricettacolo nevralgico dell’insieme del
corpo.
In “Gruss aus Oslo”, la figura sospesa su un
piedistallo, a metà fluttuante in aria senza più piedi, si da nell’evidenza di
volumi grottescamente portati verso l’esterno là dove la materia si scava o si
accumula secondo le fluttuazioni energetiche del corpo: la testa dalla
fisionomia marcata, il naso come protuberanza rossa enorme in
orizzontale, gli occhi ugualmente tuberi rossicci, infine le zone del seno e
del sesso messe in evidenza dalla tempera colorata.
In “G Kopf” la testa da identità individuale diviene un
universo in sé, una mappatura circolare, un piccolo cosmo scomposto in parti
interscambiabili, senza più fronte ne retro, modello in forma circolare e
cubica insieme, fatto della combinazione, dell’incastro di tanti piccoli riquadri
scomposti senza più trovare soluzione, armoniosa ricomposizione. Ancora, in
primo piano, è l’intaglio sulla corteccia-cosmo ripresa a vernice blu.
La “testa tragica” del 1988 é un tronco lasciato ancora
all’indeterminato della matrice dove la figura decide di non separarsi
completamente dal fondo-legno o forse vi fa ritorno scavandosi nel tutt’uno
d’uno stadio primigenio con essa. Scarnificata in verticale, i seni volumizzati
e il naso rosso, sporgente d’un pinocchio messo alla berlina é figura tragica perché
derisoria, presa in questo assurdo d’una presenza che ride sé stessa, deride e auto-deride,
nella bizzarra distribuzione dei volumi spostandosi in pieni e vuoti attraverso
la figura secondo la concentrazione dei suoi fluidi energetici.
“Le donne di Dresda” (1989/90)
La serie evoca le vittime della distruzione della città
nel 1945; un gruppo di figure plasticamente distribuite nello spazio,
intagliate nella vivacità cromatica di un giallo vivido, anti-naturalistico in
aperto contrasto con l’incarnato del modello classico. Forme tondeggianti,
piatte o ovali, la prima riempita dei buchi d’una mitragliatrice sembrano dire che
la scultura diviene, infine, questa impregnazione d’una materia grezza, presa
di mira, giustamente colpita, messa in movimento da un’energia che le é
propria, che si incarna perché assume sembianze plastiche nello spazio partendo
dal blocco monolitico del legno. Mettere
in vibrazione la materia, attivarne un’energia che si imprime in una forma
singolare, in accumulazioni, scarnificazioni,
scavature o incavi, tale é il senso possibile di questo modo di figurare.
Cinque teste nel coro delle donne di Dresda. E’ una
schiera, un gruppo,
una disposizione a cinque nello spazio che
quintuplica l’energia del singolo in un coro tragico ma distaccato, impersonale,
le cui dimensioni espanse sovrastano lo spettatore.
I cinquantadue disegni realizzati in relazione al
lavoro scultoreo nascono non tanto come abbozzi preparatori ma esprimono
secondo Baselitz “la ricerca d’una idea”, un’idea che inevitabilmente terminerà
altrove, andrà a deviare, prenderà direzioni inattese per realizzarsi in una
serie di modificazioni, di micro-trasformazioni successive corroborate dal
lavoro in serie. Costante resta la preoccupazione di indagare la discordanza
interna al sistema dei volti e all’organizzazione dei corpi, la disarmonia
ricercata nelle proporzioni o nell’isolamento di singole parti, il “fuori
norma” compreso come altra estetica possibile. Sono forme scomposte, demoltiplicate nella
ripetizione, uscite dai cardini, scardinate dal meccanismo con parti che
partono in tutte le direzioni.
Sono escrescenze, protuberanze, forme che si ergono
sessualmente, teste che crollano a lato, teste che prendono il sopravvento e
occupano tutto lo spazio della tela, masse, blocchi e poi la loro scomposizione,
infiltrazione in altre griglie figurali. Ventri rigonfiati, corpi assottigliati, masse energetiche che
prendono il sopravvento su altre, ora frammenti singoli di teste, arti, un
braccio o una gamba, figure dilatate in esterno o affilate in verticale, frammenti
sparpagliati di qualcosa che ha perduto la propria unità.
Negli
anni novanta sono le sculture fatte di frammenti smisurati, di parti di corpo
ingigantite e isolate riprese brutalmente a tempera. “Teste e torsi rossi”
giocano sulla dissimmetria ingigantita della figura nell’amputazione di alcune membra, nella
dissonanza incongrua d’ attributi femminili su corpi maschili o viceversa. Seni
su un torso d’uomo in “Mannlicher torso”, indici femminili violentemente sottolineati dal
colore primario rinviano al tema di una sorta di reversibilità tra i sessi o androginia
originaria che attraversa questa fase del
lavoro come ulteriore esplorazione sull’ibridità figurata tra i sessi.
“Sonderling
eccentrico” del 1993 é un viso che letteralmente esce dal proprio centro, si
squaderna, si sposta, si“scom-posiziona”, sembra aver ricevuto questa scossa
che d’un tratto lo smuove leggermente dai propri tratti, lo mette virtualmente
fuori di sé pur restando nella cornice apparente della figura, nel confine
tracciato del volto. In una versione successiva i tratti sono letteralmente
spostati su un lato in una sovrapposizione grottesca dei medesimi sul contorno
del viso. Emerge la portata incisiva del segno preso in questa lotta violenta sui
visi contraffati e ancora, il disaccordo tra l’energia, la mobilità del fondo e
il contorno fissato della figura.
La
scultura in Baselitz è quello che da una forma tangibile, manifesta in uno
spazio esterno a un’energia interna,
ciò che mette in vibrazione la materia, la attiva, la rende presente, d’ una presenza unica nello spazio nel confronto, nel corpo a corpo inevitabile, nella lotta quasi tra l’individuo, l’informe del legno allo stato grezzo o il suo presentarsi come blocco monolitico e indeterminato.
ciò che mette in vibrazione la materia, la attiva, la rende presente, d’ una presenza unica nello spazio nel confronto, nel corpo a corpo inevitabile, nella lotta quasi tra l’individuo, l’informe del legno allo stato grezzo o il suo presentarsi come blocco monolitico e indeterminato.
Aggredire,
scavare, incidere, lasciare segni, spazio fisico abitato, spazio plastico
intaccato, discendere, cercare il vuoto dal pieno, rigare, tagliare,
intagliare,
togliere
anziché aggiungere, tale la via aperta da Baselitz. E ancora, è l’approccio
violento che stravolge e rovescia là dove il lavoro plastico tradizionalmente
si vuole come un dare forma, un levigare e affinare, il comporre con un modello
ideale. La scultura in Baselitz è un
linguaggio molto più fisico e primordiale, è infine questo “in-finire la
materia”, renderla non-finita, metterne in gioco un’energia che si renderà a sua
volta in una forma unica, a lei sola.
“Folk
Ding Zero”, 2009
“Autoritratto
in forma di Cristo derisorio e sublime”. Desacralizza quella che potrebbe
essere la postura meditativa , la posizione tragica e greve del “pensatore di
Rodin” alla quale pure si ispira aggiungendo attributi fortemente sessuati,
ironici, ludici o depersonalizzanti, un cappellino con la parola “zero”, scarpe
da donna a tacchi alti. Autoritratto all’ennesima potenza in questo paradosso
tra il gigantismo, la massa della forma espansa in un esubero di sé, la massa
di questa testa possente, presente, ultra-pesante raccolta in meditazione ed
elementi discordanti, indici sessuali, infantili o giocosi che disobbediscono
all’insieme, desacralizzano e riportano l’identità greve del pensatore alla
misura del bambino o a quella dell’artista in ironico auto-distacco.
Elisa carissima,
RispondiEliminaho letto il tuo articolo e sono rimasta molto colpita dal progresso che hai fatto con il tuo impegno
E' molto interessante la mostra che hai visitato a Parigi e mi ha colpito tantissimo e mi sono emozionata nel leggere
Ciao a presto da mamma