Al Museo Matisse di Nizza, curiosando in vacanza sulla
costa azzurra tra le varie attrattive dell’assolata cittadina francese ci si
imbatte nel museo dedicato a una delle figure più influenti della pittura
moderna europea, Henri Matisse generalmente associato all’avanguardia del fauvismo che trascorse e realizzò qui gran
parte della sua vita e della sua pittura. All’ingresso nella hall principale su
un’enorme parete del museo appare vibrante di colore la riproduzione su larga
scale di una serie di motivi decorativi, per lo più fiori, arabeschi e altre forme
geometriche semplicissime e vivide nei diversi colori primari che si snodano in una semplicità disarmante _ quasi nel gioco di un bambino_ ritagliati dai tratti
blu di una cornice astratta tipica dei “papiers decoupés” di Matisse negli anni
‘40. Sul lato opposto della parete in una piccola cornice rettangolare lo
spazio in tensione, lo slancio e la creatività di una tela riempita di segni e
forme libere nella composizione surrealista di Mirò. Tale il tema al centro
della mostra Mirò-Matisse: la relazione, il dialogo, l’influenza reciproca o
meglio la sovrapposizione creativa e proficua tra due artisti appartenenti a
due generazioni differenti nonché solitamente associati ad avanguardie distanti
quanto il fauvismo e il surrealismo che tangenzialmente incrociano i loro
percorsi in rari frangenti nel corso di una vita. Forse solo due costanti
a far dialogare i loro distanti universi: l’immersione nel colore e la necessità di andare al di là dell’immagine come
imitazione o pura astrazione in una critica serrata della tradizione pittorica
occidentale.
“MiròMatisse, oltre le immagini”, visitabile fino alla
fine di settembre al Museo Matisse di Nizza indaga proprio a dispetto della
distanza biografica di 25 anni e delle scelte stilistiche che separano largamente
i due artisti le zone di influenza e di ammirazione reciproca nonché il legame
personale che si instaura tra i due maestri
attraverso la mediazione del figlio Pierre Matisse, gallerista di Mirò a New
York. Due i momenti decisivi di reciproca influenza messi in evidenza dal percorso in cui le opere dei due artisti
appaiono in qualche modo confrontarsi in
un faccia a faccia sottile e inevitabile; dalla fine degli anni ‘10 all’inizio
degli anni ‘40 la lezione del fauvismo
si ripercuote in Mirò soprattutto
come l’ immersione emotiva e violenta nel colore per produrre una rottura
netta con la tradizione. Dall’altro lato, le tele di Mirò dalla fine degli anni
‘30 esercitano in Matisse un impatto ineguagliabile per la loro unicità e forza
trasgressiva divenendo punto di svolta al solco del suo stile ormai assodato.
Nella parte conclusiva del percorso, infine, nella grande hall al secondo piano
assistiamo proprio a questo confronto diretto e finale tra alcune grandi opere dei due pittori
partendo dal presupposto comune di tendere “ al di là dell’immagine”: “l’assassinio
della pittura” in Mirò come “l’estetica decorativa” in Matisse.
Matisse, “Interno in rosso veneziano”, (1946)
Una pittura della luce, del lato luminoso dell’essere umano
ricercando questa armonia di composizione dove nessuna linea o tonalità
colorata si potrebbe escludere senza che venisse meno l’unità d’insieme.
Algebra perfetta di linee essenziali, figure immerse nel colore, ogni cosa
trova un proprio posto, lì perché definita nel suo dover essere, ordinando il
caos nella creazione.
Non la riproduzione
della natura ma la “semplificazione delle idee nella plasticità delle forme”
secondo le parole di Matisse. Attraverso i mezzi più semplici il pittore deve
poter esprimere,“oltre la realtà data, tutta la sua visione interiore.”
Se il colore non è fenomeno puramente esteriore ma contribuisce
a esprimere la luce, non solo quella fisica ma anche quella interiore che
illumina l’oggetto nella percezione dell’artista, dipingere nei grandi
“interni” matissiani degli anni ’40 è sentire la portata sensibile dell’
oggetto e, insieme, essere immediatamente dentro il colore. Utilizzare questo
potere emotivo, il potere di liberare e ampliare le convenzioni espressive d’un
epoca aprendo la via a uno spazio plastico autonomo, quello dell’arte moderna,
dove disegno, colore puro e linea, gli strumenti matissiani per eccellenza, non
sono più al servizio d’una realtà fenomenica ma, essi stessi, al centro della
pittura: mezzo e misura sostanziale per rapportarsi alla sua interna realtà nel
suo esterno apparire. Inseguendo questa intuizione, Interno rosso
di Matisse nasce come un’emergenza di colore dove poi cominciano a
fluttuare degli oggetti in composizione libera: un tavolinetto sinuoso, un vaso
di fiori al di sopra, un bicchiere al suo centro, un piedistallo, un’anfora
gialla, un quadro di linee nere e dense sul retro. E la linea scorre fluida,
sicura, intuitiva emergendo dal fondo in un segno dalla semplicità disarmante,
in una giustezza, tuttavia, ineluttabile.
In “Interno rosso”, la potenza del rosso va a riempire
gli spazi vuoti, come le marcature segnate dagli oggetti decorativi nella
composizione. E, d’un tratto, nel grande interno rosso, la visione si anima,
diviene vivente. Gli oggetti come forme in ebollizione, molluschi fluttuanti in
un vaso di pesci rossi, guizzano in quel bagno invasivo di colore. Infine si
riflettono nell’arancio d’ un quadro al fondo della tela in un implicito
riferimento autoriflessivo all’atto della pittura.
Mirò “ Costellazioni”, ( serie, 1940)
Le immagini di Mirò oltre all’apparenza astratta rinviano sempre più a un sostrato materico originario, come bagnassero in una sorta di ordito visivo e magnetico le cui radici affondano nell’inconscio, nel sogno o nella visione intuitiva della natura: tale,la trasmutazione simbolica della realtà per i paesaggi di Mirò. Nel gennaio del 1940, nel suo isolamento a Varengeville sur Mer, dove aveva preso in affitto una casa per sfuggire agli orrori del regime franchista, l’artista si tuffò nella pittura dando avvio a ciclo delle Costellazioni.
“A quest’epoca – racconta in seguito – ero molto depresso. Credevo che la vittoria dei nazisti fosse inevitabile (…) ed ebbi l’idea di esprimere quest’angoscia tracciando segni e forme sulla sabbia, in modo che le onde li trascinassero via istantaneamente creando sagome e arabeschi nell’aria come fumo di sigaretta, che poi sarebbero saliti in alto avrebbero accarezzato le stelle (…)”
Le tele parlano ai sensi e all’immaginazione evocando libere
associazioni di pensiero ma, anche per chi guarda,la tessitura di un vero e
proprio ordito visivo. La pittura diviene soprattutto negli ultimi decenni della
sua produzione una forma di scrittura universale, onnipresente che riassorbe
tutto e ogni cosa e la trasforma, la metaforizza in un alfabeto di segni lievi,
delicati o minutamente tracciati come fossero linee di china, ora densi,
corposi e materici simili a macchie o pennellate di colore. Le forme naturali
appaiono sempre immerse in un movimento intrinseco come assistessimo a una
danza di corpi che si muovono in un campo ritmico proprio.
Come Mirò afferma: “l’opera
è come una creazione plastica assoluta ed essenziale, con la sua personale,
intrinseca poesia. Perché solo la poesia può interpretare la realtà e la
natura”,e forse salvare il mondo. Le
forme danno vita ad altre forme nello spazio vivente della tela, costantemente
mutando rispetto a loro stesse . Diventano tracce, una tessitura primigenia di
corpi ora terrestri ora celesti fino a dare vita a una realtà di segni e
simboli universali. Lo spazio poetico della pittura è uno spazio vivente, d’una
semplicità assoluta dove è sufficiente riempire o svuotare, aggiungere o togliere
gradazioni colorate al vocabolario essenziale della pittura. Perché, in fondo
la pittura in Mirò è intuizione inconscia, impulso dentro il colore e la linea
fino a riempire gli spazi in campi magnetici che seguono leggi ritmiche insieme
universali e proprie.
Visioni a confronto
Matisse,
“ Vista su Notre-Dame” (1914), Mirò “ testa di contadino catalano” (1925)
Sono due interpretazioni di un medesimo
spazio visivo immerso nella vibrazione poetica del blu; uno stesso orizzonte teso verso qualcosa di
invisibile al di là dell’immagine. Le due visioni di Mirò e Matisse portate da
uno slancio oltre la materia appaiono convergere in qualche modo qui, favolose
e irreali, seppur provenienti da decenni e presupposti diversi nelle loro
poetiche. Geometrica, epurata l’architettura di Notre-Dame in Matisse finisce
per essere sintetizzata da un'unica superficie: uno squarcio sul muro della
cattedrale riassorbe tutta la visione su quell'unico punto di fuga prospettica
verso una linea di surrealtà oltre la rappresentazione . Ed è proprio in tale
spazio di surrealtà che bagna la tela di Mirò partendo dal presupposto di
assassinare la pittura per trovarsi al di là della mimesi in uno spazio che
tuttavia non è mai completamente astratto ma fatto di tutta la materia del
colore e l’intensità di una trama di simboli e segni universali. Punto di fuga
surrealista dato dallo strascico di una cometa, una pennellata di rosso , il passaggio
verso un'altra realtà.
La tela-superficie di Mirò é un percorso-tracciato sul reticolo-cosmo,
una linea che conduce verso un salto nel vuoto: metafisico luminoso segnato da
un punto arancio lucente.