martedì 2 settembre 2025

Mohamed Bourouissa: Communautés ( al Mast di Bologna)

 


















“Communautés”come titola la mostra di Bourouissa volge la propria attenzione ai margini, alle periferie urbane, alle comunità viste nel loro risvolto liminale rispetto all’epicentro del potere, là dove le minoranze non rappresentate risiedono, coloro che solitamente restano invisibili, non visti o senza voce nella società contemporanea. Tale diviene il fulcro di interesse del lavoro di Mohamed Bourouissa  artista di origine algerina, cresciuto in Francia,stabilito a Parigi, esposto attualmente al Mast di Bologna fino alla fine di settembre.  La retrospettiva ripercorre un ventennio della sua carriera accostando  video, fotografia, scultura, collage e stampa in 3D in tre grandi progetti  portati avanti nel corso degli anni e il più recente, inedito “Hands” esposto a Bologna per la prima volta al pubblico. Imprescindibile resta per l’artista franco-algerino, al di là del linguaggio scelto, fotografico, scultoreo o performativo, una riflessione critica sulla società contemporanea toccando temi fondamentali come le città, le migrazioni di massa, il conflitto tra società e individuo nei singoli rapporti di potere, infine la rappresentazione o auto-rappresentazione di sé.   Non si tratta di una fotografia documentaria_ la pura e semplice documentazione oggettiva di realtà_ ma di una “messa in scena fotografica”, di una finzione costruita attraverso il coinvolgimento attivo dei soggetti rappresentati nell’ottica “partecipativa” di qualcosa che si realizza o si rende visibile come accadimento di fronte ai nostri occhi. I soggetti non sono solo passivamente colti dal fotografo ma divengono attori di dinamiche sociali esposte o involontariamente svelate: le tensioni nelle banlieues parigine, la parata di “cow boys” neri a Filadelfia per “Horse day”, infine auto-ritratti che simulano selfie di giovani francesi delle nuove generazioni .




HORSE DAY ( 2013-19)


















Il “Fletcher street Urban riding club”  è una scuderia sociale fondata nel 2024 a Filadelfia dalla comunità afroamericana locale per prendersi cura dei cavalli, coltivare la passione dell’equitazione e offrire ai giovani neri un’alternativa alla strada legittimando così il loro operato. “Horse day” esposto nelle prime sale del Mast nasce come l’esito di una competizione-performance equestre nel corso di una giornata speciale nel 2014: una parata di cow boys con costumi e bardature dei cavalli realizzati per l’occasione cui sono seguiti un film documentario e una serie di sculture in 3D. Nella prima sala del Mast locandine multicolore dell’evento tappezzano le pareti del museo come all’epoca ricoprivano quelle della città accompagnate dalle musiche originali composte per la parata e da alcuni sfarzosi costumi  argentei e luccicanti creati per i cavalli.  Collage e particolari sculture digitali  invadono lo spazio espositivo di “Horse day”: si tratta di stampe fotografiche dei partecipanti o di momenti salienti della giornata su pezzi di carrozzerie d’auto evocando ancora una volta la combinazione tra tecnologia e l’industria nella società attuale. Su un’altra immensa parete un montaggio colorato di una serie di schizzi, disegni preparatori, foto o altri piccoli collage documentano le fasi intermedie simile a un diario di bordo con i passaggi  che hanno condotto al montaggio  sull’acciaio in ampia  scala.



























“Unicorn” sovrappone  fotografie dai colori beige e ocra su una lastra argentea, volutamente “spiegazzata”, soggetta a una sfocatura intenzionale dove i bordi si confondono  mentre  un destriero bianco e bardato è condotto da un cow boy nero che chiaramente sovverte lo stereotipo della tradizione proveniente dal vecchio west americano per riappropriarla, stropicciarla appunto come un foglio usato e riutilizzato in maniera differente sulla superficie scintillante delle immagini.

“Ride Day 2” ( 2019)

 















E’ un affresco post-moderno apocalittico e industriale fatto di parti di carrozzeria in acciaio, pittura per auto, vernice spray e stampe digitali sulle medesime. “Ride Day”occupa tutta la parete della galleria estendendosi nel suo montaggio idiosincratico, fatto di pezzi d’auto di recupero, foto stampate e altri frammenti: i nuovi cow boys afroamericani si intravvedono tra le linee insieme alle bardature dei cavalli e le scintille d’argento che a pezzi disparati si ricompongono nel collage di Bourouissa. Allo stesso modo “Windows” sono finestre aperte sulla vita della comunità nera, individui del tutto sconosciuti e ignorati dalla maggior parte i cui ritratti meravigliosamente umani si rivelano come in un negativo fotografico su vecchie portiere d’auto quasi si trattasse di un’immagine rubata da uno specchietto retrovisore. Là, in primissimo piano, uno spaccato di vite, sguardi svelati nel contrasto del bianco e del nero. Infine, prepotentemente presente al centro della sala compare “The phone ” scultura prodotta da una stampa in 3D in resina e fibra di vetro: una presenza oscura, minacciante nella posa in una ulteriore rivisitazione dello stereotipo bianco dello yankee americano. 


PERIPHERIQUE 

 “Peripherique”_ tale il nome della tangenziale parigina che separa la città dai quartieri  periferici limitrofi _   appare come una serie “aperta” che il fotografo ha continuato a rielaborare con nuove immagini come l“Alyssia” e “Dinosaure” rilanciando l’attualità del progetto. Si tratta di volti, ritratti, messe in scena fotografiche realizzate da Bourouissa per un progetto portato avanti negli anni a partire dalla rivolta delle banlieues francesi nel 2005.

“Alyssia” (2022)



Questa giovane influencer franco-algerina  di “Peripherique” sceglie di auto-determinarsi attraverso una precisa immagine di sé: giovane libera, disinibita, senza veli sfatando gli stereotipi di rappresentazione della donna nella cultura islamica.  Decide di attraversare quel confine sottile che rende non solo visibili ma anche capaci di imprimere un segno, lasciare una traccia permanente sul destino di coloro con cui si entra in contatto. Lei, giovane araba dall’impronta occidentale sceglie di riappropriare la propria identità, corpo e vita, “blessed” come si autodefinisce nel tatuaggio impresso a grandi caratteri sul suo braccio . Da sé stessa legittimata decide di sfidare nella sua rivendicazione di libertà e potere al femminile i cliché sulla cultura araba in occidente così come l’oppressione patriarcale da essa perpetuata.

“La Republique” (2006)


Nelle periferie di Parigi, in quella zona ibrida ai bordi esterni del centro del potere delle elite lo scontro tra giovani di una  gang è messa in scena da Bouruissa evocando le rivolte nelle banlieue avvenute  nel 2005. Il titolo dell’immagine “Republique” dove in primo piano i giovani rivoltosi sventolano una bandiera della repubblica francese evoca, citando implicitamente la celeberrima opera di Delacroix , i nuovi esponenti di questo paese post-coloniale da generazioni frutto di migrazioni, metissage, e contaminazioni tra le diverse culture, nello specifico quella magrebina e quella francese dove ancora non sembra essersi compiuta l’attesa e imprescindibile integrazione. L’immagine intende lasciare spazio e a queste frange urbane di giovani francesi di discendenza araba che chiedono voce, visibilità, un volto in una società che ancora li rende invisibili o inesistenti.

“Dinosaure” (2022)

In uno scenario quasi idillico che rimanda a una visione paesaggistica di ispirazione impressionista una famiglia francese di origine araba è vista nello splendore del momento presente sullo sfondo di un parco fiorito di alberi e cespugli verdi. Tra tradizione e modernità il velo che ricopre il capo della madre proveniente dal mondo arabo si oppone ai capelli lunghi e sciolti delle giovani figlie dai giubbotti di pelle nera e le sneakers ai piedi simili a qualsiasi altra adolescente francese della stessa età. La visione è irradiata di una luce di  aspettativa e ottimismo verso un futuro di coesistenza pacifica  nel difficile equilibrio tra occidente e islam in Europa, tra retaggi gerarchici o repressivi del passato e nuova libertà individuale ancora da conquistarsi.

 SHOPLIFTERS


La serie di fotografie originariamente scattate dal proprietario di un negozio di Brooklyn con una semplice polaroid mostrano in una messa a nudo diretta e frontale i volti di individui  sorpresi a rubare nel supermercato, messi in posa insieme alla refurtiva una volta colti dalla telecamera di sorveglianza. La spaventosa banalità dei beni sottratti come biscotti, uova o birra  insieme ai volti inermi degli indigenti colti dal sistema di sorveglianza svela, in realtà, dietro l’apparente banalità del gesto la violenza e la miseria insite sotto la superficie della società consumista americana. Ne emerge una criminalizzazione disumana della povertà fisica e morale da parte di una società accusatrice e senza pietà.  Uomini e donne della strada sono mostrati in primissimo piano in una messa a nudo fredda, opaca e senza veli che sottolinea ancora di più le contraddizioni ai margini dell’illusorio benessere e del vano spreco  nel sistema capitalistico occidentale .

 HANDS

Immagini provenienti dal passato, in particolare dettagli di corpi, volti, mani o gesti ricompaiono ristampate sul plexiglass e poste sullo sfondo di una griglie metallica nell’inedita serie “Hands” presentata per la prima volta al Mast di Bologna. Si tratta di trasformare o riappropriare ancora una volta nell’ottica di Bouruissa quello che del passato non può sussistere in sé stesso come immutabile ma che invece è soggetto, come la vita stessa, al cambiamento e all’inevitabile trasformazione. L’artista citando Artaud oppone alla materia intesa come presenza viscerale dei corpi la griglia vista come luogo di oppressione e soffocamento dell’individuo. Vediamo nella serie esposti in primo piano profili di volti oscurati, poi mani che si divincolano e cercano movimento e libertà, infine volti cupi, schiacciati e oppressi dalla prigionia. Giungono a noi come grida di libertà, simili ad asserzioni autentiche e incontenibili dei corpi contro il soffocamento oppressivo della struttura tale  la griglia del potere o della legge. Sullo sfondo i  colori elettrici, ora violacei o rossicci, ora blu allucinanti e grigiastri. Perché Bouruissa in tutti i suoi lavori, dalla fotografia, alla scultura  all’installazione nelle sue molteplici sperimentazioni,  non smette mai di parlarci delle tensioni insite nella società contemporanea, dei rapporti di potere tra singolo e comunità, tra centro e periferie, infine di giovani generazioni alla ricerca di legittimità e nuove società dell’integrazione ancora da definirsi. 







sabato 12 luglio 2025

Jack Vettriano: "In the mood" ( Mostra a Palazzo Pallavicini, Bologna)

 











In the mood”, titola l’introduzione all’opera di Jack Vettriano, artista scozzese contemporaneo ancora poco conosciuto in Italia cui Palazzo Pallavicini a Bologna dedica una retrospettiva fino al prossimo 20  Luglio a pochi mesi dalla sua scomparsa. Proprio in quel particolare “mood” o atmosfera, infatti, ci conduce la pittura unica e raffinata di Vettriano, sensuale e ammaliante quando  ispirata  da una musa o “ femme fatale”  al centro della tela, ora intrisa di nostalgia e desiderio quando riportata su quella spiaggia scozzese sovente al centro della sua creazione. Vettriano nasce nel 1951 da una famiglia di origine italiana  per parte materna proprio nella contea scozzese  di Fife le cui suggestioni paesaggistiche ritornano sovente nella sua pittura. Abbandona gli studi a 16 anni iniziando a lavorare in miniera per intraprendere poi la strada dell’arte in maniera autodidatta dall’età di 21 anni influenzato dai quadri di Hopper, dai coloristi scozzesi, dall’estetica del cinema noir e più tardi dal cinema hollywoodiano. A prescindere dal soggetto luci e ombre permeano costantemente  le sue tele attraverso un intenso chiaroscuro che domina tutta la sua pittura traslando sempre la medesima da realista a simbolica, in ogni caso evocativa di una storia intravista ma mai totalmente svelata, osservata e colta in sordina come se l’artista fosse testimone invisibile  della scena. Il tocco di Vettriano   resta rapido, incisivo, capace di cogliere in pochi tratti essenziali  il “mood” vale a dire lo stato d’animo pervasivo dello scorcio rappresentato.  Il ritmo musicale citato come fonte di ispirazione è quello del jazz: rapido, sincopato come l’alternarsi  degli strumenti in un dialogo d’ improvvisazione. Lo si ritrova, infine, nel contrasto dominante tra luci e ombre nei suoi quadri, tra ciò che è rappresentato e manifesto e ciò a cui rimanda di allusivo e  misterioso nella scena.


“A spell on you”







La figura femminile appare spesso al centro delle sue tele come simbolo di fascino e seduzione quasi fosse un incantesimo  da cui non riesce a sottrarsi, “un mistero senza soluzione” nelle parole di Vettriano, dove la donna è spesso rappresentata come un’Afrodite contemporanea che rende l’uomo semplice comparsa dal potere puramente apparente. Da un altro punto di vista, vediamo il soggetto femminile di profilo con lo sguardo a metà celato allo spettatore  quasi che allo stesso modo la rappresentazione volesse aprire uno spazio di inconoscibilità demarcando una linea sottile oltre la quale la percezione reale della figura, oggetto di fascino e desiderio, resta in qualche modo interdetta a un tentativo di appropriazione dello sguardo maschile se non come apparente visione . In “yesterday’s dreams” la donna è vista guardare fuori oltre il vetro della stanza; il viso a metà in penombra assorto nell’emozione di un momento o di un ricordo. La finestra a vetri enorme sullo sfondo riflette e si pone come una linea di confine tra l’interiorità celata della donna e la realtà esterna a lei circostante. Elegante e sottile la figura quasi di spalle volge lo sguardo fuori, lontano da noi mentre la scena è pervasa da percepiamo attraverso la postura che sfugge, lo sguardo rivolto lontano, nei colori ocra-rossicci dello sfondo, nel senso, infine, di solitudine pervasivo di una storia lì interrotta o sospesa. Oltre quella linea di demarcazione la figura resta mistero e inconoscibilità.


“Homage to Fontana”



Bisturi alla mano, l’artista volge le spalle a noi guardando oltre i vetri della grande finestra; ha appena tagliato la tela del cavalletto con squarci netti e definiti che richiamano i “concetti spaziali” di Lucio Fontana cui rende omaggio attraverso quest’opera. Il pittore italiano ricercava là il superamento dei limiti bidimensionali del quadro aprendo a una quarta dimensione spazio-temporale che sapesse confrontarsi con il reale includendo anche i concetti di vuoto o di tensione verso l’infinito. Il titolo “Attesa” accompagnava spesso tali tele suggerendo una riflessione sul tempo perché lì ogni taglio era “un istante catturato” che apriva uno squarcio allo scorrere lineare del tempo. Allo stesso modo, l’artista scozzese rappresenta spesso nei suoi quadri quel tempo sospeso dell’attesa definito come “ciò che potrebbe essere e non si sa se avverrà mai”. Queste figure femminili sinuose ed eleganti sfuggono al nostro sguardo volgendo a noi quasi le spalle in un tempo in cui  “l’anima tende, si dirige verso” un altrove oltre il limite della scena. Per Vettriano l’arte rappresenta non solo ciò che è visibile ma più spesso “ciò che non lo è”, quella quarta dimensione appunto di cui parlava Fontana che tende oltre l’apparire, l’intangibile del reale oltre la rappresentazione.


Sulla Spiaggia

“The sea belongs to everyone. It welcomes feelings, allows footprints aware of the ephemeral nature of every passage”.


E’ alla natura effimera di ogni paesaggio, al  mare propriamente che si ritorna sempre nelle tele più riuscite di Vettriano , là dove spiagge luminose appaiono irrorate di una luce soffusa al tramonto e la banchina traslucida e irreale simile a un proscenio accoglie le figure danzanti, sospese nel vento in un tempo “fuori dal tempo” simile a un sogno dove nulla o tutto può accadere.



In “Mad Dogs”il mare, la spiaggia e la luce della costa scozzese al tramonto divengono protagoniste mentre due figure si muovono sulla banchina verso l’infrangere delle onde a riva. La giovane donna in abito leggero e bianco precede mentre l’uomo le sostiene l’ombrello leggermente retrostante. Lei tentando di restare in equilibrio in una danza lieve, appena accennata, in bilico sulla riva mossa dal vento. Con una freschezza innata, la sua leggerezza e carica emotiva donano intensità alla scena. In “Singing Butler”l’atmosfera è totalmente onirica e sognante come fossimo in un ambientazione surrealista di Dalì , certamente in un luogo immaginario traslato fuori dal tempo ordinario, un altrove creato lì appositamente dal quadro per dare forma e corpo a un desiderio soggiacente, inconscio, viscerale inteso come l’Es del linguaggio. La donna in abito lungo, rosso e attillato stretta all’uomo nella danza appare a piedi nudi, riscattando una certa idea di libertà mentre la scena è orchestrata dentro uno spazio delimitato dai due ombrelli scuri_ il maggiordomo e la cameriera retrostanti_ sospesi come per proteggerli dal vento o dall’imminente temporale. Teatrale quasi sulla spiaggia incandescente di grigio e d’oro, diviene questa ambientazione in un equilibrio perfetto di luci e di ombre mentre le figure sospese volgono lo sguardo all’orizzonte lontano da noi a metà tra levità e mistero.


 


“Dance me to the end of love”


La danza resta uno degli scenari ricorrenti nelle tele di Vettriano perché riporta immediatamente  le figure a una dimensione intima e poetica veicolata nel silenzio della parola attraverso la gestualità del corpo. Così i volti sfuggono alla visione frontale e le figure spesso di profilo lasciano parlare l’espressività dei gesti e delle pose. “Dance me to the end of love” è proprio attraverso la pittura un invito a continuare a danzare fino all’ultimo respiro là dove la danza è vista come metafora stessa dell’esistenza, fino alla fine della musica, fino al limite ultimo della vita o dell’amore come titola il quadro. La coppia stretta nella danza sulla spiaggia in abito da cerimonia con il sole calante al tramonto si ritrova insieme nel passaggio del tempo attraverso la persistenza della vita o fino alla fine della medesima. Ancora la spiaggia appare nella sua dimensione traslucida, limpida ed estraniante restituendo qui uno stato d’animo  a metà tra solitudine e romanticismo.  Invita ad affacciarci, un’ultima volta in  punta di piedi,  con leggerezza dentro questo scorcio di vita, scenario intimo a metà rubato tra i due su una  scena che echeggia di surrealismo. 


“Jack Vettriano by Francesco Giudicini” 




Nell’ultima sala Vettriano appare fotografato sullo sfondo dei suoi quadri dal ritrattista del “Sunday Times” Francesco Giudicini offrendo un’ultima riflessione sulla pittura vista attraverso l’obbiettivo fotografico, ancora in quella “quarta dimensione” qui dischiusa attraverso la fotografia. L’essenza del ritratto di Vettriano si riassume per Giudicini in questo scatto fotografico nel suo studio. Una manciata di pennelli appare in primissimo piano all’angolo di un cavalletto visto trasversalmente con una tela al di sopra che si realizzerà o meno come contingenza di un  momento o di un’atmosfera particolare. Ancora in quello spazio “dell’attesa “ seducente, misterioso che costantemente si presenta come sogno ad occhi aperti nella pittura di  Vettriano.









martedì 10 giugno 2025

NELLO SPECCHIO DI NARCISO: IL VOLTO, LA MASCHERA, IL SELFIE (al Museo san Domenico di Forlì)







 “Il ritratto dell’artista”, come titola la mostra attualmente in corso ai Musei san Domenico di Forlì fino a fine giugno è una riflessione attraverso il tempo e lo spazio ripercorrendo la storia della pittura occidentale, dalle sue origini greco-latine al contemporaneo  sul tema della rappresentazione di sé, autoritratto,immagine speculare che l’artista restituisce differentemente in ogni epoca convocando anche in una dimensione più ampia, i valori estetici e rappresentativi di una certa epoca.  “Dall’antichità al novecento l’autoritratto è il sublime ricordo dell’antico mito di Narciso narrato da Ovidio nelle Metamorfosi” scrive Gianfranco Brunelli nell’introduzione alla mostra. Sembra che tutta la vicenda della rappresentazione di sé nel corso del tempo e della storia parta da quel mito originario rappresentato a più riprese nella pittura classica:  l’amore verso il proprio riflesso visto in una fonte come espressione estrema di un desiderio ultimo e inaccessibile, auto-referenzialità che in Narciso conduce alla morte. Tuttavia, lo specchio irrompe nell’immaginario occidentale proprio  attraverso tale mito perché l’uomo che si guarda racchiude in sé anche la domanda sul senso dell’esistere e il socratico “conosci  te stesso”. Nell’immaginario occidentale partendo dal mito di Narciso come teorizzato perfettamente da Leon Battista Alberti nel Rinascimento , la rappresentazione di sé  ( la figura che si specchia nella fonte) diviene un atto di conoscenza perché  “ la pittura è il fiore dell’arte e dipingere è abbracciare con lo sguardo ogni cosa specchiata”. In tal senso comincia ad apparire la figura dello specchio, il ritratto dell’artista dentro il quadro e infine l’autoritratto dalla fine del ‘400 là dove le arti visive sono viste come “speculative”  cioè nell’equazione perfetta tra rappresentazione e conoscenza. L’artista, allo stesso modo,  attraverso l’autoritratto acquisisce una progressiva definizione e consapevolezza di sé come uomo di lettere, protagonista del proprio tempo investito di un nuovo ruolo sociale nell’ occidente europeo.

Il tema del volto attraversando tutto il Rinascimento genera da un lato una serie infinita di allegorie che popolano con il proprio intento moralizzante tanta parte dell’arte occidentale  _ tali la virtù, la vanità, la bramosia spesso a soggetto femminile. Dall’altra parte gli artisti nel XV secolo sentono per la prima volta la necessità di rappresentarsi inseriti  in scene collettive non più come semplici esecutori e artigiani dell’opera ma come creatori, testimoni morali dei fatti rappresentati mentre sempre più la forma dell’autoritratto comincia a imporsi come genere a partire dal ‘500 . Con l’avanzare verso la modernità all’inizio dell’ 800 da una parte assistiamo all’affermarsi della scultura neoclassica con una serie di ritratti auto-celebrativi che appaiono a voler divinizzare quasi il soggetto fino a renderlo immortale come nel caso di Canova. Da un altro punto di vista, la soggettività romantica emerge prepotentemente nella prima parte dell’800 restituendo attraverso l’autoritratto valori quali il puro genio, la potenza creatrice, la condizione esistenziale dell’artista  con Francesco Hayez, Moreau, Fattori ecc  in una dimensione più intimista che anticipa la modernità. Con la nascita delle avanguardie nel primo novecento e il clima di ritorno all’ordine tra le due guerre l’autoritratto è vera e propria dichiarazione di estetica,  manifesto dell’unicità di ogni singolo pittore. “Narciso nello specchio del novecento”  nell’ultima parte della mostra riflette di sé un’immagine frammentata, divisa, volutamente scomposta o fatta a pezzi nello specchio prismatico e infranto del cubismo prima e della Prima guerra Mondiale poi  attraverso un continuo, quasi ossessivo psicoanalitico studio di sé. Infine nell’ultima sala dedicata al contemporaneo che titola  “Il volto e lo sguardo” il tema dello sguardo irrompe al di là e insieme a quello del volto evocando  nelle svariate rappresentazioni di sé la dimensione del corpo in primissimo piano nel suo risvolto di dolore, di grido o di estasi liberatoria come in Marina Abramovic comunque di una dimensione esperienziale, soggettiva, a tratti intimista che sperimenta a 360 gradi con le più svariate tecniche e materiali tra i quali soprattutto l’immagine fotografica.

Il mito di Narciso nelle arti visive



Nell’affresco murale del I secolo d.c proveniente da Pompei, “Narciso, Eco ed Eros”affiora, già  nella pittura greco-romana a metà cancellata dal tempo il mito del giovane Narciso  visto là sul punto di immergersi alla fonte mentre sedotto resta  prigioniero del  proprio riflesso  respingendo l’amore disperato di Eco alle sue spalle. In “Narciso alla fonte” di Tintoretto lo stesso personaggio è rappresentato secondo i canoni della pittura veneziana della metà del  ‘500 circondato da alberi e rocce in una cornice suggestiva alle spalle mentre Narciso si inchina sull’acqua con rapimento e malinconia in un inappagabile desiderio,  amore verso sé stesso  che lo condurrà alla dissoluzione nel lago. Se alla fine del ‘700 nella singolare versione di Guy Head Narciso dilegua sullo sfondo insieme al paesaggio mentre la dea Eco ricompare in primo piano sospesa nella semi nudità,  avvolta da un velo  come figura flessuosa e sensuale evocando quella sola voce che nel mito continua a echeggiare invano per cercarlo.  Nell’arazzo del 1971 di Corrado Cagli, “Narciso Moderno” il mito viene reinterpretato in chiave inedita: l’individuo appare allo specchio di sé, espanso a grandezza naturale sulla parete visto attraverso un filtro bluastro e ocra. La figura magnificente è esaltata nella piena autonomia di un corpo nudo, ben delineato, plastico e plasmato come argilla. Narciso è visto lì nel riflesso malinconico di un desiderio impossibile a soddisfarsi, infuso di grazia e bellezza sullo sfondo di una natura statuaria immensa in toni ora terrestri ora malinconici.  

Venere Vanitas Tiziano


Lo specchio nel corso dell’arte occidentale da semplice oggetto di rappresentazione  si trasmuta in simbolo, metafora dell’atto del vedere, dunque alla base di ciò che chiamiamo immagine.  Come l’immagine si relaziona al linguaggio per quella corrispondenza univoca tra il visibile e il dicibile allo stesso modo la storia della pittura occidentale è costellata da una serie di correlativi al volto rappresentato o riflesso : la maschera dell’attore, la maschera funeraria, il volto naturale o quello artefatto per esempio dal grottesco di un  quadro. Dal medioevo in poi lo specchio compare con diversi significati nella pittura, dalla creatura  riflessa come specchio del creatore, all’allegoria sulla caducità della vita e della vanità nel 1600. In Venere Vanitas” di Tiziano ( 1490) ,per esempio, la nobildonna veneziana incarnando una bellezza ideale ispirata alla dea Venere  ammira sè stessa al parapetto posto fuori dal nostro campo di visione. Dunque la giovane dama fissa il suo volto su uno punto focale posto fuori dal nostro sguardo mentre noi percepiamo lei semplicemente come ieratica figura: il corpo nudo avvolto a metà da una tunica, il seno scoperto, i gioielli scintillanti sul candore del bianco incarnato. Il suo ritratto seducente e altero esalta la bellezza come pura vanità sublimata allo specchio della medesima.  

Auto-smorfia Giacomo Balla, (1900)







L’estetica simbolista alla fine dell’’ 800 conduce all’estremo il pre-esistente soggettivismo romantico anche grazie all’ avvento della fotografia moderna contestando gli stereotipi collettivi verso la costruzione di una mito del sé del tutto personale. La rappresentazione dell’artista visto  come genio ribelle e solitario nella sua accezione romantica ci conduce direttamente al cuore dell’avanguardia. Lo specchio nel  ‘900 riflette un volto sconosciuto di Narciso, estraneo perfino a sè stesso oppure una pluralità di sfaccettature di sè spesso contrastanti, eterogenne o stravaganti come nel “autosmorfia” di Giacomo Balla nella ricerca futurista di una radicale mutazione estetica. L’artista nel ‘900 si indaga, si espone, si auto-analizza  in una nudità metaforica che è anche quella della maschera pirandelliana come in  “Autoritratto nudo” di De Chirico. E il volto rimanda anche alla nozione di umano come enigma, alla dicotomia tra apparire ed essere, alla psiche come zona  d’ombra o dell’altro in sé.Portando sulle spalle, la coscienza dell’orrore della storia del ‘900.

 Il ritratto  contemporaneo:  Bill Viola , Marina Abramovic





Le sperimentazioni in questa sezione sono tra le più disparate e differenti per tecniche e stile ponendo, tuttavia sempre al centro la dimensione del corpo nel suo grido disperato, incontenibile ora di estasi ora di dolore. L’artista Chuck Close ci trascina attraverso un primo piano sorprendente dentro i suoi occhi messi in rilievo, dentro il suo sguardo espanso come attraverso una lente di ingrandimento fino a convocare dal corpo la psiche, dal visibile l’inconscio con un intenso e immediato impatto visivo. Bill Viola, allo stesso modo, in “Self-portrait submerged” evoca l’episodio in cui a 6 anni finisce nel fondo di un lago rischiando di annegare perchè non sapeva nuotare mentre d’un tratto l’acqua diviene nel video girato molti anni più tardi l’elemento salvifico. Le fluttuazioni dell’acqua prendono il sopravvento sulla figura statica del corpo quasi ceduto all’immobilità  mentre la bellezza e l’armonia della dimensione acquatica si impongono sulla stasi incarnata dalla figura. Nelle due fotografie di Marina Abramovic dal titolo “Ecstasy, with eyes close I see happyness” l’artista pone sè stessa al centro della scena autorappresentandosi  in un gesto che passando attraverso il volto dagli occhi chiusi incarna il momento estatico del grido trattenuto o meno, visibile o immaginabile in un sotteso invito a guardarsi dentro mentre il mondo è lasciato per una volta alle proprie spalle lontano da sè e dalla fotografia. Quasi a ricordarci come il ritratto nel post-moderno sia sempre più questo prisma infranto di un’immagine capace di rinviare innumerevoli riflessi diversi e discordanti tra loro dove la verità e la dissimulazione si confondono nel gioco ultimo dell’auto-rappresentazione.